I love 80’s

                        Film sperimentali tutti anima e cervello

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I love 80’s. Amo gli anni 80. Un motto così diffuso che vale la pena capire come mai tanto ardore suscita un decennio che potrebbe essere come tanti, ma che per molti rappresenta l’apice dell’umanità nel 900. Ci spieghiamo meglio, stiamo parlando in particolare del lato artistico, dalla musica al cinema. Dunque, perché questo “morboso” affetto alla generazione degli ottanta? La risposta, che l’articolo approfondisce, può essere riassunta in un’unica sentenza: il coraggio di sperimentare.

 

{mosimage} Chiunque abbia nel proprio dna un poco della parola nostalgia, saprà benissimo dove vogliamo andare a parare. Nonostante gli ultimi anni di cinematografia ci abbiano dato (rari) esempi di maestria e tecnicismo, ostentazione dell’arte in pellicola, dobbiamo ricondurre a quel periodo, o alla fine degli anni 70, molti dei maggiori successi su scala planetaria per quello che riguarda le uscite in sala. Sequel, newquel e remake dell’oggi cinematografico non sono altro che rivisitazioni dei film dell’epoca. Il tocco dell’artigiano, la grafica gustosamente retrò, il coraggio di sperimentare e portare sino in fondo una storia che scotta. Insomma, toccare certi argomenti e rilanciarli davanti agli occhi degli spettatori non era l’eccezione ma la regola urlata da Hollywood a Cinecittà, dalla Croisette alla Berlinale e via dicendo. Gli esempi più lampanti arrivano dal filone horror e dai western metropolitani, sulle commedie il discorso è diverso poiché vanno di pari passo col modernismo, non solo digitale. In ordine di tempo ecco The Hitcher, classico e claustrofobico road movie diretto da Robert Harmon nel 1986 con un allucinato Rutger Hauer, rifatto (scadentemente) da Dave Meyers. Aggiungiamo il passaggio sullo schermo di Non aprite quella porta o di altri teen horror da videoteca e il quadro è completo. Capostipite di questo filone è stata la pellicola più attesa dell’anno, nonchè soggetta a spasmodica attesa tra i fan, Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, che ha fatto impallidire nel suo poco convulso finale chi trepidava col cuore in gola su quale fosse il Santo Graal da far scegliere ad Indy. In quegli anni addirittura i remake erano migliori degli attuali, dettati da regole programmaticamente commerciali, e spesso diventavano dei contro-cult: vedere lo Scarface di De Palma (1983) per credere. Uno dei pochi casi d’oggi a smentire tale andamento, dopo il boom di sir Sean Connery, è stato lo 007 interpretato da Daniel Craig, Casino Royale, proprio perché ha fatto dello sperimentalismo sul personaggio la chiave di (ri)lettura della serie cinematografica. La differenza stava proprio nel maggior potere di registi e autori e nella libertà dei loro script rispetto all’attuale rigido placet imposto dagli Studios, prima di ogni sceneggiatura o bozza. Proprio grazie a questo, al fatto che ci si poteva permettere di osare, si tentava di indagare la materia filmica in ogni suo aspetto talvolta esagerato e disturbante. Il pubblico avrebbe poi capito, specialmente se accanito sostenitore dell’artista in questione. Oggi, invece, si fanno semplicemente dei copia e incolla su macchine da presa ultratecnologiche, non vogliamo dire che anche un bambino lo saprebbe fare, solo sottolineare come sia proprio “l’animo fanciullesco” dei nuovi autori a mancare in queste storie. Noi che negli anni ottanta eravamo bambini, di sicuro abbiamo preferito emozionarci con La Storia Infinita (1984) o con I Goonies (1985), rispetto alle favolette postmoderne di Narnia o stile La Bussola d’Oro. Non crediamo ci sia da ridire su questo.

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