Ashes of time (redux): recensione film

IL CAPOLAVORO RITROVATO DI WONG KAR-WAI

Molti storceranno il naso vedendo recensito cronologicamente come terzo film “Ashes of Time”, dato che l’unica versione, di cui oggi possiamo godere, è quella redux dell’anno domini 2008. Purtroppo il primo “Ashes of Time”, la versione originale del 1994, non ha mai trovato una distribuzione sul mercato occidentale per gli scadenti risultati economici in patria ed è andato perduto (o fatto sparire da Wong Kar-wai dalla circolazione, se vogliamo essere un po’ maligni). Ritrovato e rivisitato, il regista cinese ci ha regalato questa versione, distribuita in Italia dalla BIM, solo in DVD.

In “Ashes of Time”, Wong Kar-Wai si confronta con il genere del wuxiapian, genere cinematografico cinese, in cui si raccontano vicende di personaggi ed eroi epici con combattimenti volanti e corse a cavallo. La versione “riduzione” del resto ha trovato nuova linfa vitale semplicemente perché questo genere, poco noto negli anni Novanta, è esploso al botteghino USA ad inizio millennio con “La tigre e il dragone”. Come dice l’appellativo dato al film, in questo nuovo adattamento, il regista ha lavorato per decurtazione, limando le scene e non, come magari ci si aspetta da una rivisitazione, aggiungendo parti.

In una mitologica era, si intrecciano attorno al personaggio dell’eremita Ou-yang Feng tre storie, tenute insieme tra loro, come solo i grandi maestri del cinema sanno fare. Feng vive nel deserto e ogni anno riceve la visita di Huang, uno spadaccino che ha scoperto un particolare vino che cancella la memoria. Huang in passato ha incontrato Yang, a cui ha promesso di sposare sua sorella Yin, ma l’uomo ha infranto la promessa, e Yin assume Feng per ucciderlo. Dall’altra parte Yang assume Feng per uccidere proprio Huang, colpevole di non aver mantenuto la parola data.

Il regista, anche in questo film, ripropone la sua visione del mondo, in cui “errare è umano”, dove l’amore puro è quello contrastato e irrealizzabile e la sete di vendetta alimenta le speranze. Un ruolo fondamentale lo ricoprono i ricordi e i rimpianti: vere e proprie ossessioni dei personaggi, che nemmeno il pensiero buddista, sbandierato fin dall’inizio della pellicola, riesce a calmare il cuore in tempesta dei protagonisti.

Lavorando a posteriori, il regista affiancato dal fedele direttore della fotografia Christooher Doyle, con cui ha collaborato già in “Days of Being Wild”, mostra un mondo saturo di colori con forti contrasti cromatici, per sottolineare l’assoluta a-temporalità dell’azione. Il montaggio è serrato, come un battito cardiaco e le sequenze d’azione, rispetto all’originale e agli altri wuxiapian, sono meno spettacolari e più veloci, quasi solo accennate, accompagnate però dalla solita scelta accurata della colonna sonora.

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