Et in terra pax: focus sul film

INTERESSANTE OPERA PRIMA TOTALMENTE INDIPENDENTE DEI GIOVANI BOTRUGNO E COLUCCINI

Fare un film non è facile, se poi nessuno ti sostiene diventa impossibile. Oppure no? Il cinema indipendente vive in tempi buoni come in tempi di crisi e vive sempre dignitosamente. Lo dimostrano i giovani registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini che ieri sera hanno presentato la loro opera prima al (Cine)Teatro Valle Occupato, dopo circa un anno e mezzo dall’anteprima ufficiale. Et in terra pax è infatti uscito nelle sale ma ha avuto, come accade a molti film, una distribuzione che il regista Coluccini ha definito simpaticamente “disordinata”; a causa del ritiro veloce dalle sale, quasi nessuno l’ha visto. Dal 27 maggio però, sarà di nuovo al cinema.

La periferia romana (Corviale per essere precisi) fa da sfondo a tre situazioni: un giovane che ha scontato una pena di 5 anni per spaccio, una ragazza seria che studia e lavora desiderando un futuro migliore, tre ragazzetti nullafacenti che passano le giornate tra “botte” e partite di calcetto all’ex Cinodromo. Tre storie che nascono e si svolgono nel famoso edificio popolare detto “serpentone”, che si avvicineranno una all’altra per poi intrecciarsi in modo tragico e fortemente drammatico.

L’ambientazione di estrema periferia e degrado sociale non deve però essere presa come il centro del racconto di Et in terra pax: i due registi tengono a precisare che il loro interesse è indirizzato soprattutto a indagare le dinamiche interne tra i personaggi; scavare nella loro mente e nel loro animo cercando le ragioni di molte scelte discutibili. Lo sfondo periferico non fa altro che accomunare le città e i cittadini che vivono al loro interno situazioni di disagio e sofferenza: il centro delle città, dice il regista Botrugno, è immediatamente riconoscibile mentre le zone periferiche si somigliano tutte. Il
racconto ha dunque un respiro più ampio, universale, la realtà romana potrebbe essere quella parigina, quella londinese, pechinese o newyorkese.

Vengono subito in mente le teorie e le pratiche di Pier Paolo Pasolini che della borgata ha fatto un luogo di culto e d’ispirazione per la prima parte del suo cinema. I tre giovani che tutto il giorno gironzolano per il quartiere, quei “ragazzi di vita” che cercano una strada da intraprendere… magari domani, he poi non arriva mai. L’elemento che rimanda maggiormente alle pratiche pasoliniane è ciò che l’autore definiva “sacralità tecnica”, ovvero la sacralizzazione di un soggetto popolare attraverso immagine e musica: la fotografia (ben fatta e avvolgente) e la colonna sonora (solenne e in netto contrasto con l’ambientazione) di Et in terra pax richiamano e applicano perfettamente questa aspirazione.

Lo scrivono gli stessi registi, c’è la voglia di rendere sacri ambienti, azioni e personaggi allo scopo di poeticizzare anche una realtà che di poetico non ha nulla. Proprio per questo, il film di Botrugno e Coluccini non va preso come una sorta di docu fiction: è pura finzione, allestita con l’intento di raccontare storie trasfigurandone ogni elemento.

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