La mia vita È uno zoo: recensione

MATT DAMON TORNA IN UN PICCOLO FILM PER FAMIGLIE DESTINATO A SCUOTERE I CUORI DI PIETRA

A volte ci si sente a disagio a recensire film così. Vorresti stroncarli nel peggiore dei modi, perché non sono altro che film di buoni sentimenti preparati a tavolino apposta per farti piangere. Però sinceramente non ce la faccio a stroncare “La mia vita è uno zoo”. Si tratta di un film dalla struttura semplice, se non elementare, in cui un padre decide di comprare una proprietà che comprende uno zoo con varie specie di animali e… Scarlett Johansson.  Ok, sicuramente non saranno serviti mesi di fatica per scrivere un lavoro di questo genere – film con animali -, prevalentemente rivolto a famiglie con bambini. In pratica si tratta del “I pinguini di Mr. Popper” di questo 2012, solo un po’ più emozionante.

La regia è di Cameron Crowe, che in passato ha saputo offrirci un piccolo cult come “Almost famous” che sapeva fotografare in modo efficace un determinato contesto storico-culturale come quello dei gruppi rock USA anni ’70, ma anche un film terribilmente sopravvalutato e pacchiano come “Jerry Maguire”. Non è un vero autore, in virtù della qualità altalenante delle sue opere. Qui come  regista Crowe fa un passo indietro rispetto al film del 2000 e a tratti sembra di assistere a un lavoro che non sfigurerebbe nel palinsesto di Disney Channel, ma che riesce comunque ad emozionare lo spettatore, specie quando si parla di temi importanti come l’elaborazione del lutto e la voglia di essere costruttivi pur partendo da un contesto tragico. E anche se la regia di Crowe va a tentoni, non importa, perché c’è la musica di Jonsì e dei suoi Sigur Ròs che nel finale regalano brividi a non finire con l’ennesima riproposizione di un brano come “Hoppipolla” che, fin dalle sue prime note di piano, fa già venire i lucciconi.

Dal cast non si possono aspettare grandi sorprese, ma fanno tutti il loro dovere, anche se Damon sinceramente ci piace di più quando impugna la pistola e sgomina intere squadre di agenti della CIA senza battere ciglio. Ovviamente gli ruba la scena Thomas Haden Church, che come nell’inedito “Killer Joe”, riesce a essere più di una volta esilarante (ad esempio quando cita “Stati di allucinazione” di Ken Russell) e a conquistarsi i favori del pubblico. In sostanza è un film che si merita la sufficienza e che potrebbe convincere persone con una certa sensibilità. Come me. Però evitate di dire in giro che mi sono commosso…

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