Prometheus: recensione

RIDLEY SCOTT TORNA AL GENERE CHE L’HA RESO FAMOSO DIMOSTRANDO CHE ANCHE I MIGLIORI POSSONO SBAGLIARE CON STILE

GENERE: Fantascienza

USCITA: 14/09/2012

Ridley Scott è un fenomeno particolare tra i registi in attività ad Hollywood. I suoi primi tre film sono autentici capolavori che –possiamo dirlo senza remora- hanno lasciato un segno nella Storia del Cinema. In seguito sono venuti film buoni, boiate incredibili, piccoli cult, ma mai i capolavori che uno si attenderebbe da uno con lo stile di Scott. Sempre a cavallo delle ultime avanguardie cinematografiche, ha saputo anche aggiornare un genere come il peplum, da anni considerato sepolto, con Il gladiatore, che in un certo senso ha anticipato tutta la moda dei film sugli antichi romani e greci che sarebbero venuti dopo. Ora il buon Ridley torna a far parlare di sé con un film che vuole spiegare i fatti antecedenti ad Alien, ma al tempo stesso prendere le distanze da quel film offrendo un nuovo concept quanto mai intrigante.

Prometheus è il nome di una nave che trasporta un gruppo di biologi e scienziati su una luna di un pianeta lontano svariati milioni di miglia, dove si pensa che possa esserci la razza degli ‘Ingegneri’ che secondo alcuni ultimi studi potrebbe aver dato vita al genere umano sul nostro pianeta. La leggenda si mostrerà vera. Ma questo non significherà un bene.

Visto in una bella sala equipaggiata con le ultime tecnologie in fatto di proiezione, l’inizio del film è da spavento. Panoramiche di paesaggi della terra incontaminati e la musica eterea di Marc Steitenfeld per uno spettacolo senza precedenti che già ci mette nell’umore giusto: potrebbe essere un gran film. Successivamente, dopo una breve introduzione dei nostri personaggi sulla terra, andiamo in alto, nello spazio, dove, tra le varie cose, nessuno può sentirti urlare.  Ed ecco altre belle scenografie fotografate benissimo, con un’alta definizione far gridare al miracolo. Eppure già avvertiamo la mancanza di qualcosa. Perché se fin dall’inizio di Alien c’era quel leggero senso di inquietudine che lentamente portava alla paura più cieca, qui quest’elemento manca. E anche se la sceneggiatura scorre senza particolari intoppi, ti accorgi ben presto che le immagini che scorrono sullo schermo sono si belle da far paura, ma mancano di un’anima, come anche l’androide David, che a parte questo è praticamente perfetto.

Quello che fa Scott è un lavoro di riproposizione solo superficiale di quelli che erano i temi base di Alien: la paura della morte, il disagio della maternità e così via. In mezzo c’è pure qualche accenno alla fede, da farci rodere il fegato, ma per fortuna, come tutte le tematiche toccate dal film, la questione è sfiorata di striscio. Non fraintendetemi, i momenti da salto nella sedia ci sono, Scott si dimostra ancora un regista capacissimo, ma forse bisognava essere più scrupolosi nei riguardi degli giovani sceneggiatori Jon Spaiths (The darkest hour) e Damon Lindelof, affermatosi sotto l’ala di J.J. Abrams, scrivendo parecchi episodi di Lost.

Insomma ci troviamo di fronte a un bell’esercizio di stile, mediamente ben recitato –anche se a Noomi Rapace gli manca la grinta- e che intrattiene per tutta la sua durata. “Hai detto niente!”, qualcuno potrebbe ribattere. Solo che qua c’era la materia prima per fare un capolavoro come non se ne vedevano da anni. E invece si è andato sul sicuro, nello spazio dei film di fantascienza contemporanei, dove (quasi) nessuno riesce a osare. 

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