Venezia 69: cherchez hortense – recensione

DOPO UN BRILLANTE INIZIO, SI ARENA LA COMMEDIA FRANCESE DI BONITZER

GENERE: commedia

I francesi hanno un gusto raffinato nella commedia, lo sguardo stranito del mattatore di giornata, la gag improvvisata ma sempre di classe, persino i tempi giusti per strappare la risata. Nel caso specifico, però, Chercez Hortense sfrutta queste qualità solamente nel primo quarto d’ora rispetto alle sue due esagerate ore di racconto. L’uomo medio comune (Jean-Pierre Bacri), problemi a casa, un matrimonio affaticato e un padre arrogante, vive sopravvivendo, accompagnato da una musichetta raffinata che vorrebbe far ragionare lo spettatore sul perbenismo del ceto medio, anche quando certi problemi non hanno “confini, né religione”.

L’incontro con una giovane allieva (lui insegna cinese per manager d’azienda) gli cambia l’esistenza, metafora della facilità con cui alcune certezze vacillano vorticosamente, una volta innestato il dubbio inceptiano nella mente. Pascal Bonitzer aggiunge un tocco sapiente nella regia, ma poi dimentica completamente di star girando un lungometraggio e si perde nei vicoli ciechi di discorsi fuorvianti e noiosi, completamente non-sense per il proseguio della storia, la quale, pur senza sbavature arriva a metà già con le pile scariche e chiude con un finale di grande sciattezza.

Non basta quindi, semplicemente non è abbastanza un canovaccio abbozzato per fare di un corto un film, sebbene partito da un’idea simpatica, il problema che affligge la pellicola non risiede nella regia, nella recitazione o nella messa in scena.

Il difetto che fa arenare l’intero progetto, come per molti “tentativi” italiani, sta nella scrittura alla base di tutto. Qui la sceneggiatura è debole in partenza, specie quando poche righe ben studiate cominciano a prendere forma senza però assumere una struttura solida, cinematograficamente parlando. Senza quelle fondamenta, Cherchez Hortense è un castello di carte in attesa dell’uragano.

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