Venezia 69: lemale et ha’chalal (fill the void) – recensione

LA VINCITRICE DELLA COPPA VOLPI, HADAS YARON, IN UN FILM SENTIMENTALE D’ALTRI TEMPI

GENERE: Sentimentale

Anche quest’anno la Coppa Volpi è andata a un’attrice completamente sconosciuta, mentre il Miglior Attore secondo la giuria è stato ancora un divo – o meglio i Due Divi -, come l’anno scorso, quando i vincitori furono Deanie Yip, protagonista di A Simple Life, e Micheal Fassbender, il ‘sessuomane’ indimenticabile di Shame. Per trovare personaggi femminili forti sembra che bisogna andare a vedere quelle produzioni atipiche, lontane dagli standard hollywoodiani che mortificano in parte il ruolo della donna. Hadas Yaron, protagonista di Fill the Void, scelta dalla giuria come la migliore del concorso, è un’ottima giovane attrice che però si lascia facilmente mettere i piedi in testa dalle protagoniste de La Cinquième Saison e Pieta. Eppure, è un personaggio capace di ispirare.

La storia del film israeliano sembra uscire dalle pagine di un romanzo sentimentale d’altri tempi. Quando la moglie di Yochai muore improvvisamente, la sua famiglia si mette in agitazione per trovare una nuova compagna al neo-vedovo, nonché giovane e inesperto padre. Pur di non mandare Yochai in Belgio, dove lo attenderebbe una sua amica disposta a sposarlo, la madre trova nella giovane e sognatrice Shira la donna perfetta per Yochai, vista anche l’intesa che c’è tra i due. Tuttavia il loro non sarà il più facile dei matrimoni…

L’opera prima di Rama Burshtein è un insolito film israeliano, generalmente drammatico, che ha delle punte di quell’umorismo ebraico che aveva caratterizzato un altro film in Concorso a Venezia: The Exchange presenta al Lido l’anno scorso. Meno radicale e surreale della pellicola di Kolirin, Fill the void è comunqe un film che pur seguendo le convenzioni di un genere che conosciamo fin troppo bene, riesce ad arricchirle con le tradizioni di un paese che più cinematografico di così non si poteva credere. Sembra di assistere a una variazione di un altro film in Concorso, quel Thy Womb del filippino Brilliante Mendoza, dove la storia di una coppia di cinquant’anni si mischiava ai riti e al folklore di un paese, le cui vicende sullo schermo non vediamo praticamente mai.

Anche la regia della Burshtein è notevole, viste le scelte di impostazione del quadro e il lavoro con il direttore della fotografia, dal tono soffice e impastato che rimanda a quei ‘romance-movies’ che solo la Hollywood degli anni d’oro sapeva offrire. Ma è il modo con cui la regista segue in ogni movimento la giovane e coraggiosa protagonista che sorprende: attraverso lo sguardo della Burshtein notiamo quella grinta adolescenziale che caratterizzava, ad esempio, le eroine dei romanzi di Jane Austen.

Per chi è incuriosito, dalla vicenda di Yochai e Shira, sappia che fortunatamente la Lucky Red si occuperà della distribuzione del film anche in Italia: si tratta di una di quelle pellicole che pur, con un lavoro minimalista nel reparto musiche (ma i canti tradizionali ebraici sono sempre affascinanti da ascoltare) e un ritmo non proprio travolgente, riesce a lasciare lo spettatore con un senso di arricchimento, dovuto in parte all’approfondimento di un paese che ignoriamo totalmente e in parte alla storia di una ragazza, la cui grinta dovrebbe ispirare molti degli spettatori più inesperti in faccende di questo genere.

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