Cesare deve morire: recensione film

I FRATELLI SAVIANI ENTRANO NEL CARCERE DI REBIBBIA E RENDONO I DETENUTI PROTAGONISTI DELLA SETTIMA ARTE

Il valore educativo del carcere, spesso per ottusità di pensiero, viene messo in secondo piano rispetto a quello punitivo. Ma può accadere che nell’ala di massima sicurezza un carcere romano i detenuti possano usare la recitazione per distaccarsi dal proprio ego e usare il personaggio che interpretano come redenzione, purtroppo fittizia, dei loro stessi atti.

Ed è lì, nel carcere di Rebibbia, che i fratelli Taviani sono entrati e con la loro maestria e le loro cinepresa hanno trasformato i detenuti in protagonisti. I carcerati che sono diventati attori hanno sulle spalle una pena non inferiore ai 15 anni e trovano uno scorcio di libertà in quelle ore trascorse a provare, libertà che poi viene lasciata fuori la porta, nel momento in cui il secondino chiude le loro celle e i riflettori si spengono.

“Da quando ho incontrato l’arte, questa cella è diventata una prigione” è la frase emblema di Cesare deve morire, film italiano in corsa per gli Oscar, ripetuta come una preghiera da uno dei protagonisti del lungometraggio che forse non vedrà altra libertà se non quella del personaggio che interpreta durante i provini per che affideranno le parti nella produzione del Giulio Cesare di Shakespeare a teatro.

Il film dei fratelli Taviani è un’opera complessa che ricorda il neorealismo di Pier Paolo Pasolini e rende di nuovo persone quelli che, dietro alle sbarre che li dividono dalla vita, per la società sono solo ombre.

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