Roma film fest – suspension of disbelief: recensione

MIKE FIGGIS GIRA UN FILM DALLE ATMOSFERE DEPALMIANE POCHE CONSONE AL SUO STILE

GENERE: Thriller

Anche se probabilmente non vi dirà molto, quello di Mike Figgis  è un nome da non sottovalutare nella vasta cinematografia statunitense. Col suo Via da Las Vegas è riuscito nella difficile missione di far vincere un Oscar all’altalenante Nicholas Cage e con Timecode ha utilizzato lo split-screen per introdurre lo spettatore in quattro diversi piano-sequenza (e dunque quattro storie) che occupano l’intera durata della pellicola. In bilico tra sperimentazioni visive e cinema di finzione è anche la sua ultima fatica Suspension of Disbelief. Tuttavia la pellicola presentata nella sezione MAXXI dopo un inizio folgorante, non convince al 100%.

La storia segue un intrigo che ricorda non poco il cinema di De Palma con due gemelle che sconvolgono il destino di un tranquillo sceneggiatore di Londra. All’inizio troviamo la figlia di quest’ultimo su un set cinematografico e con la tecnica dello split-screen vediamo sia quello che la macchina da presa riprende del ‘film nel film’ sia quello che accade dietro le quinte, Il tutto mentre in sottofondo passa Everything in its right place dei Radiohead in un accostamento audio-visivo da brividi. Poi le cose cambiano quando il regista decide di cambiare genere, introducendoci in un thriller di derivazioni depalmiane con alcune scene oniriche dal gusto lynchano. Il tutto sembra però poco consono allo stile di Figgis, che sembrava invece molto a suo agio a raccontare la storia di ciò che accade nel making-of del ‘film nel film’ che a un certo punto diventava perfino ‘film nel film nel film’ (…). L’entusiasmo da parte dello spettatore lentamente si spegne, ma ciò non significa che non si possano incontrare scene memorabili anche dopo parecchi giri a vuoto da parte degli sceneggiatori: la sequenza della discoteca con in sottofondo un brano di musica barocca è di grande effetto, così come le lezioni di sceneggiatura del protagonista ai suoi allievi capaci di appassionare anche chi non è pratico dell’argomento.

In sostanza non si tratta di un film brutto, ma di un film riuscito a metà, capace di attirare lo spettatore grazie ad alcune invenzioni visive niente male, ma incapace di creare un discorso cinematografico solido che possa competere ad esempio con l’eloquenza visiva dei geni del festival Greenaway, Miike e Verhoeven.

(13 novembre 2012)

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