Nebraska: recensione film

ALEXANDER PAYNE DIRIGE UN LUNGOMETRAGGIO IN PERFETTA ARMONIA CON LE TEMATICHE DEL SUO CINEMA

NebraskaGENERE: drammatico

DATA DI USCITA: 16 gennaio

DURATA: 110′

VOTO: 3,5 su 5

Una ricchezza promessa dalla pubblicità ingannevole di una casa editrice, una truffa forse tra le meno cattive in cui un uomo anziano può incappare perché la scelta di non crederci è contemplata. Da un incipit così quotidiano in un’epoca in cui la crisi diventa anche frutto di falsi semplici guadagni in nome della cieca fortuna, è possibile creare una storia di rilievo cinematografico solo se si è un buon regista e Alexander Payne, senza ombra di dubbio, lo è.

Nel suo nuovo lavoro, Nebraska, Payne usa temi, metodi di narrazione e imput già visti nei suoi film come il confronto tra le generazioni, l’on the road e i bilanci di una vita.

Woody T. Grant (Bruce Dern) è un anziano uomo che, a seguito di una fantomatica vincita milionaria che gli è stata annunciata per corrispondenza, intraprende un viaggio verso Lincoln, Nebraska, nella speranza di poter ritirare il premio accompagnato da suo figlio minore David (Will Forte).

Il loro percorso che attraverserà quattro stati dell’America, dal Montana al punto d’arrivo, farà tappa anche a Hawtorne luogo in cui Woody e nato e in cui troverà luoghi e personaggi della sua giovinezza.

Il viaggio da sempre in letteratura e al cinema ha una duplice valenza, quella fisica e quella emotiva, e così i due compagni d’avventura attraverseranno una parte dell’America ormai in via d’estinzione in un cammino anche personale che porterà padre e figlio ad approfondire la loro conoscenza e che, in particolare, farà fare a Woody un bilancio della propria esistenza, bilancio che non può prescindere da un ritorno alle origini.

In un bianco e nero minimale Payne dirige un lungometraggio che non è dissimile da Sideways e che ha in sé tutta l’eleganza della sua macchina da presa che tratteggia, attraverso profondi dialoghi che lasciano spazio anche a leggerezza e ironia, due personaggi ben interpretati dagli attori e una serie di eleganti macchiette di contorno che rendono il lavoro delicato, profondo e divertente allo stesso tempo.

Interessante come il cineasta gestisce il tema dell’invecchiamento e di quel bisogno di rivalsa da quel senso di inutilità tipico dell’inverno della vita del quale la vincita è metafora. Bellissima la costruzione del rapporto padre-figlio dolceamaro e non dissimile dalle strade burrascose che i due protagonisti percorrono per arrivare alla meta che li troverà più uniti e più maturi.

Il lungometraggio di Alexander Payne da al pubblico esattamente ciò che da lui si aspetta e la capacità di non deludere mai, a volte e come in questo caso, è più importante dello stupore.

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