The host: recensione film

UN BUON CAST E UN DISCRETO REGISTA SPRECANO LE LORO POTENZIALITÀ IN QUELLO CHE È, ALLA BASE DI TUTTO, SOLO UN BRUTTO RACCONTO

GENERE: fantasy drama

DATA DI USCITA: 28 marzo

Erano solo quasi idi di novembre quando nelle sale italiane è uscito Breaking dawn-parte seconda l’ultima parte del terzo atto tratto dalla saga Twilight firmata da Stephanie Meyer. Sono trascorsi solo quattro mesi e con The host si torna a parlare della scrittrice statunitense che con i suoi libri ha fatto sognare milioni di adolescenti.

Dai vampiri si passa agli alieni colonizzatori di corpi in questo quinto lungometraggio tratto da un’opera della Meyer. Alieni a cui non tutti gli esseri umani sono disposti a soccombere e contro i quali Melanie Stryder (Saoirse Ronan) e Jared (Max Irons), incontratisi per caso e innamoratisi, vogliono combattere.

Melanie in nome dei suoi sentimenti farebbe di tutto per proteggere Jared e Jamie (Chandler Canterbury), suo fratello, e proprio per difendere quest’ultimo viene catturata dagli alieni. Nel suo corpo sarà instillata un’Anima, Viandante, con il compito di scrutare i suoi ricordi e scovare la sede dei ribelli. Ma Viadante, grazie alla forte personalità e ai forti sentimenti di Melanie comincia ad avere dei dubbi su quanto sia giusto colonizzare i corpi.

Quando Melanie/Viadante trova finalmente i ribelli questi fanno i conti con una persona che è fisicamente uguale a quella che amano ma “posseduta” da una diversa anima che, per loro fortuna, risulta essere un’atipica colonizzatrice.

Nonostante siano diversi i protagonisti c’è da dire che, purtroppo, che il centro dell’intera vicenda, per quanto sembri un po’ più complessa di quella di Twilight, è comunque l’amore raccontato sempre nello stesso identico e modo. La protagonista, per quanto “abitata” da un certo momento in poi da un’aliena basa tutte le sue scelte sui suoi sentimenti e il triangolo Melanie/Jared/James è al centro dell’intero film che, alla fine, non risulta poi così diverso nel soggetto dalla vampiresca trilogia.

Nonostante sia il regista, Andrew Niccol, sia i due protagonisti, Max Irons e Jake Abel, siano artisti di tutto rispetto la storia non riesce proprio a colpire o a risultare, quantomeno, interessante.

Troppi i momenti morti che Niccol crea, forse per avvicinarsi il più possibile ai tempi letterari del romanzo, in un lungometraggio che diventa, andando avanti con i minuti, solo una lunga attesa di quel colpo di scena che non arriva mai trasformando il tutto in una lenta agonia. 

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