La Prima Neve: intervista ad Andrea Segre e Anita Caprioli

”È BELLO QUANDO L’ARTE TI LASCIA APERTE LE PORTE DELL’IMMAGINAZIONE”

La Prima Neve prosegue il discorso di Andrea Segre iniziato con il precedente Io Sono Li. Il regista veneto, qui alla sua seconda opera di finzione, sottolinea ancora una volta l’importanza imprescindibile del cuore umano legato ad un altro, congiunto da un territorio circostante che ne fa da trampolino, rendendo lo straniero un elemento fondamentale della società moderna. La Prima Neve, applauditissimo al 70. Festival di Venezia, riesce a scaldare l’anima dello spettatore con semplicità e delicatezza, delineando una favola contemporanea che dovrebbe essere consuetudine nelle televisioni italiane.

In occasione dell’uscita in sala del film abbiamo incontrato Andrea Segre e la protagonista femminile Anita Caprioli in un splendido e pulito pomeriggio romano, nel centro storico, in compagnia di un tè e di buoni libri. Loro, gentilissimi e disponibili, hanno risposto alle nostre domande.

La cornice ne La Prima Neve è qualcosa di importantissimo, quasi l’elemento fondamentale. Come mai questa scelta di mettere in risalto il territorio che influenza i protagonisti? Che rapporto avete con quello che vi circonda?

Andrea Segre – Il motivo primario è che ho iniziato a fare cinema perché avrei potuto conoscere dei posti che prima non conoscevo, il film, prima di essere una produzione, è un esperienza umana, mi piace scoprire e vivere un punto di vista che non immaginavo. Sono io come persone che ho un rapporto specifico con gli ambienti e questo si ripercuote anche nel film e nelle storie che continuo a raccontare. Il processo è inverso in questo caso: io faccio una cosa e poi ci faccio un film. Non ho mai pensato di fare il regista, mi sono ritrovato a farlo perché vedevo dei luoghi e li volevo narrare con il mio punto di vista.

Anita Caprioli – Per me è un po’ una sfida, mi affascina raccontare un territorio diverso, l’assorbo. In questo caso il mio personaggio racconta un certo punto della sua vita. Un’esperienza del genere in quel territorio, interpretando quel personaggio, è estremamente bella. Dai voce ad una donna che ha un’esperienza così forte. Però dopo quello che le succede si ritrova da sola, nonostante i progetti familiari che continua ad avere. C’è un aspetto bellissimo sull’incontro umano, c’è la scoperta di un qualcos’altro.

Anita, tu hai alle spalle una carriera multicolore, spazi dalla commedia al dramma, dove ti trovi più a tuo agio?

Fare questo lavoro mi spinge a cambiare, in questo momento mi attrae molto poter raccontare le vicende più vicine alla realtà.

Andrea, ovviamente vedendo La Prima Neve non si può non pensare ai fatti di cronaca disperati e drammatici che vede Lampedusa protagonista.

Credo che le mie storie siano vicende che attraversano tutto il paese, solo che si fa fatica a farle diventare notizia, perché non sono spettacolo, non tirano in TV. Ma se continuiamo ad accettare questo, il macabro che fa scalpore prima della positività e della speranza, e raccontiamo solo l’emergenza è perché c’è un secondo fine. Quelle immagini fanno scaturire nello spettatore un’idea di invasione, ma non è così: a Lampedusa sono arrivate 25 mila persone all’anno, è un numero basso se si mette in relazione con gli ex invasori dell’Est Europa; quell’immigrazione fu risolta con la libera circolazione, oggi vengono e vanno come vogliono e non c’è più questo dramma. Sono numeri che non stanno in piedi ma che fanno notizia, chi entra nell’integrazione annoia, il disperato fa scalpore.

Anita, cos’hai pensato quando hai letto la sceneggiatura, qual’è stata la tua prima impressione?

Non l’ho letta, me l’ha raccontata Andrea. Io avevo visto Io Sono Lì ed ero rimasta davvero toccata, quando mi ha parlato della sua idea di film ho pensato che dietro a questa storia poteva esserci un impulso forte con vicende che arrivano dalla verità. Ho avuto un momento di commozione quando me l’ha raccontata. Poi, con la capacità di Andrea di ricostruire storie, arrivi su un territorio di autenticità e ti ritrovi in una situazione emozionante in un confine labile. C’è poi un pudore nel raccontare le emozioni, vengono rispettate; nel film le sensazioni dei personaggi vengono salvaguardate, raccontate con delicatezza. Oggi c’è solo un motivo di mostrarlo e non di raccontarlo.

Nel film c’è una frase chiave ”Le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme”. Questa scelta dell’odore come la spieghi, perché questo senso invece che un altro?

Mi piaceva giocare con uno dei sensi meno cinematografici di tutti, volevo giocare con questo linguaggio, è bello quando l’arte ti lascia aperte le porte dell’immaginazione. L’odore ed il riconoscimento degli odori fanno parte della natura ma sono schiacciati dalla società urbana, dall’omologazione. Lo spazio di riscoperta con questo senso è uno spazio di rinascita, varie realtà hanno il coraggio di ricostruire un rapporto con questo senso reinventando un rapporto con la natura. Mi piaceva assolutamente mettere l’odore di fronte allo spettatore, facendolo interrogare su questo.

Anita, l’ultima domanda è per te: com’è stata l’esperienza di doppiaggio nel videogioco Call of Duty? Ti sei divertita a farlo?

(Risata generale, ndr) È stata un esperienza stranissima, ho doppiato una figura animata che non vedevo. Un momento totale di creatività autonoma, mi sono immaginata tutto, avevo uno schema davanti con una tempistica da rispettare, ricreando il contesto e le situazioni che doppiavo. Devo dire che è stata una cosa particolare, ero concentrata solo sul mezzo vocale. Assolutamente una cosa diversa da quello che ho fatto fino ad ora.

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