True Story: Missing in Italy


JAMES FRANCO E JONAH HILL NELLA “STORIA VERA” DI MICHAEL FINKEL

true storyGENERE: drammatico

DURATA: 100 minuti

VOTO: 4 su 5

Presentato al Sundance Film Festival di quest’anno, True Story vede come produttore esecutivo, tra gli altri, Brad Pitt, con la volontà di trasporre sul grande schermo il libro di memorie, e omonimo, del giornalista Michael Finkel, affidando la regia all’esordiente Rupert Goold. Il debuttante filmaker, che ha alle spalle una lunga esperienza in campo teatrale, è anche autore della sceneggiatura, co-scritta con David Kajganich, la quale, come si può dedurre dal titolo, mira a mettere in scena il filo sottile che spesso separa la verità dalla menzogna, in tutte le sue sfaccettature.

Già dai minuti iniziali, quindi, ci vengono subito proposte le prime “bugie” da parte di entrambi i protagonisti, a presentarci immediatamente cosa ci aspetterà per tutta la durata della pellicola.  In questo caso, la sequenza ruota abilmente intorno alla loro vera identità: con il giornalista del New York Times, Michael Finkel, che si trova in Africa per lavorare a un pezzo sullo sfruttamento di giovani ragazzi nelle piantagioni, il quale mostra le timide avvisaglie di una certa manipolazione dell’intervista da parte sua; si passa poi in Messico, dove assistiamo all’incontro di un uomo con una turista tedesca, alla quale si presenta proprio col nome di Michael Finkel, giornalista del Times. Trascorre del tempo, e l’articolo sull’Africa, dopo un iniziale successo, costa al “vero” autore il suo posto nella celebre testata, mentre il “falso” Finkel, in realtà Christopher Longo, è stato prontamente fermato dalle autorità, con l’accusa di aver assassinato sua moglie e i loro tre figli, ora in attesa di processo. In cerca di redenzione, e di uno scoop che lo possa in qualche modo riabilitare nell’ambiente, Finkel contatta Longo, chiedendogli perché si sia spacciato per lui, avviando il rapporto di amore/odio e di co-dipendenza che si svilupperà nell’arco della parte restante del film, dove ognuno userà l’altro, anche inconsciamente, e in cui non ci sembra essere alcun posto per la “verità”.

Curioso, se si pensa all’inizio della loro carriera più che a quella odierna (e per questo più che significativo sulla direzione che entrambi hanno intrapreso), che gli interpreti per dei ruoli così forti e “drammatici” siano Jonah Hill (Finkel) e James Franco (Longo), lanciati in tenera età da un autore come Judd Apatow in una veste decisamente comica. Come detto, pur senza mai abbandonare la propria verve più “leggera” (Facciamola finita, The Interview), col tempo i due sono riusciti progressivamente ad affermarsi in produzioni considerate più “impegnate” dalla critica, il primo lavorando con grandi registi (The Wolf of Wall Street), il secondo mostrando tutta la propria ecletticità artistica, alternandosi ora a teatro, ora in auto-produzioni indipendenti, fino alla scrittura di romanzi.

Non è un caso, perciò, che Brad Pitt, che con Hill ha già lavorato in L’arte di vincere, abbia scelto loro, i quali puntualmente non hanno mancato di regalare l’ennesima importante interpretazione, reggendo praticamente da soli la pellicola e, al tempo stesso, manifestando il motivo più rilevante per vederla. Sì perché i “comprimari”, tra cui una Felicity Jones fresca di nomination all’Oscar per La Teoria del tutto, fanno solo da sfondo alla chimica messa in scena dai due protagonisti, che riescono a rendere efficacemente l’iterazione ambigua e coinvolgente che si instaura tra i loro personaggi, la quale spazia dal reciproco fascino ed iniziale ammirazione, fino a culminare nella dura rivalità che si concretizza in chiusura.

La pellicola non ha riscosso molto successo, né di critica né di pubblico, guadagnando quasi 5 milioni alla sua uscita (ad Aprile) contro i 30 di budget, fatto che, considerando quanto visto, ha certamente le sue valide ragioni. True Story, infatti, non è privo di difetti, lo sviluppo della trama è abbastanza inconsistente, così come la caratterizzazione dei personaggi “non-protagonisti” (la moglie di Finkel in primis) non raggiunge il grado di interesse necessario per appassionarsi alle scene in cui li vediamo all’opera. Eppure la bravura del regista, accompagnato da un montaggio ben pensato e gestito, sta tutta nel sorreggere e insieme enfatizzare la prova del duo Franco-Hill, dando modo, in una vera e propria unità d’intenti, di infondere quel senso di continua e, per questo, raffinata “vaghezza” alla storia vera che si vuole raccontare, senza comunque mancare di apportare il suo contributo, grazie anche a immagini forti e difficilmente ignorabili. Tutti elementi che ci fanno considerare i giudizi e i riscontri avuti in patria quantomeno affrettati, consigliandovi di dargli sicuramente una chance.

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