La foresta dei sogni: recensione

GUS VAN SANT DIRIGE UN’OPERA SULLA MORTE E SULL’AMORE CHE RISCHIA DI PERDERSI IN UNA FORESTA DI BANALITÀ

La foresta dei sogni locandinaGENERE: drammatico
DURATA: 110 minuti
USCITA IN SALA: 28 aprile 2016
VOTO: 3 su 5

Spinto dal dolore e dai sensi di colpa, Arthur Brennan decide di prendere un aereo che lo porti in Giappone. La sua meta è Aokigahara, la foresta dei sogni, nota soprattutto per l’alto tasso di suicidi che avvengono tra i suoi alberi. Qui Arthur ha infatti deciso di porre fine ai suoi giorni ma, mentre si appresta a compiere il suo ultimo gesto, scorge una figura aggirarsi per il bosco: è Takumi Nakamura, un uomo che ha provato a togliersi la vita ma poi, pentitosi, ha deciso di tornare a casa. Ma trovare la via di uscita da quel groviglio di rami e radici è più complicato del previsto. Arthur decide dunque di aiutarlo, restando invischiato in quello che doveva essere un semplice favore (l’ultimo, per lui) e che prende, invece, strade impreviste.

Il cinema di Gus Van Sant, diviso tra film indipendenti e titoli più prettamente patinati, ha più volte affrontato argomenti che facevano perno sull’elemento della sfida, sfida all’apparenza tra un individuo e l’altro (sia esso un singolo o una collettività) ma che poi rivelava essere più intima, derivante dalla complessità del rapporto che il personaggio aveva in primis con sé stesso. Un’intimità da subito svelata in questo La foresta dei sogni (The Sea of Trees), la sua ultima opera presentata in concorso al Festival di Cannes 2015.

Arthur tenta di emergere dal dolore sordo che lo ha condotto fino all’estremo Oriente individuando nella morte l’unico strumento per sanare una rottura, quella con la moglie Joan, avvenuta molto prima di quanto lui si immagini. In seguito a eventi irrecuperabili, l’uomo sembra aver perso di vista tutto ciò che di bello è riuscito ad accumulare in una vita insieme alla sua compagna, provando un irrimediabile senso di sconfitta.

Ma è addentrandosi in questa foresta che Arthur riesce a risvegliarsi dal sonno che lo aveva schiacciato: quello da lui affrontato in Aokigahara è un percorso complicato e impervio, dove la via d’uscita sembra un miraggio irraggiungibile, che lo porta ad entrare in profondità non solo nel luogo da dove tenta di scappare, ma anche nel proprio io, ugualmente da lui fuggito. In questo suo personale purgatorio, il protagonista del film di Van Sant è accompagnato da Takumi, Virgilio e Beatrice allo stesso tempo, una guida nascosta in quella che sembrava un’anima smarrita.

Van Sant parte da un desiderio di morte per far emergere dalle ceneri la vita, ricreatasi da un errare dantesco dove risalta tutta la bravura di un cast eccezionale, composto da Matthew McConaughey, Ken Watanabe e Naomi Watts.

Ma lungo il sentiero di questa rinascita, sembra che i passi del regista statunitense si perdano e vadano fuori strada: sorretta da una sceneggiatura a tratti molto debole, la pellicola pare smarrirsi tra un cinema più intimistico e un testo condito da stonanti banalità. Quella che si crea con il film La foresta dei sogni è sì un’opera che cerca di indagare il dolore e il pentimento, l’amore e la redenzione, ma lo fa sorvolando rasoterra questi temi in cui dovrebbe invece immergersi, forse distratta da un dramma davvero troppo borghese per il cinema di Van Sant, che qui sembra aver perso il proprio tocco poetico nell’affrontare il tema della morte a cui i suoi titoli sono solitamente molto legati.
Ed è allora che la foresta della rinascita si trasforma in una stanza chiusa, dove la riflessione sull’uomo e sulla sua fine sembra un ospite sgradito e, dunque, da bandire.

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