Daybreakers

L’ALTRA VITA DEI NON MORTI

La locandina originale recita: mescolate The Matrix a 28 giorni dopo e avrete Daybreakers. Quanto più lontani dalla verità, tanto più vicini ai meccanismi di marketing degli uffici stampa. Se la realtà è spesso ben presente nel mezzo, il pensiero oggettivo associato al film dei fratelli Spierig è di assoluta mediocrità.

Che attenzione, non è una qualità negativa, se associata all’ampio e fumante calderone dei B-movies. Pellicole horror insaporite di misticismo, che spesso tendono a sfociare in action da rumori di fondo e pretesto per serate tra amici. Nel caso specifico 2019, l’umanità infettata è ridotta a poche comparse, gli altri sono involucri distributori di sangue per la razza dei vampiri, una nuova “etnia” fatta di debolezze letterarie e pochi superpoteri, che necessita di alimentazione continua, nonostante le riserve umanoidi siano in estinzione.

Pena la trasformazione in subsiders, esseracci deformi degni di Le colline hanno gli occhi. Fortuna che il buon vampiro Ethan Hawke, ematologo non-morto in cerca di un surrogato del sangue, troverà una cura per tutti: dal sole si rinasce. Venuto in contatto con un altro vampiro redento e ri-umanizzato (Willem Defoe con la sindrome di Tom Waits), Edward Dalton intraprenderà il cammino per la salvezza della specie umana, scontrandosi con la classica multinazionale senza scrupoli, guidata dal demoniaco Sam Neill.

Poi un fiume di emoglobina e splatter senza sosta, la lotta tra possibile e improbabile combattuta nel campo della chimica, tripudio alla violenza generata dai morsi della fame che farebbe invidia ad un copione di Romero.

Fotografia cupa e qualche sparuta trovata originale, il resto è materiale da maratona notturna sul divano, dove l’empatia con i personaggi non entra mai nel vivo, penalizzando un cast che con ambizioni maggiori avrebbe potuto dar vita a un nuovo genere e non solo ad un rivisitazione.

Quando infine sorge l’alba, non si crede ai propri occhi, effetto del trambusto finale tra buoni e cattivi appare distinta la chiusura stereotipata: macchina rombante su strada soleggiata procede spedita verso un destino di risorgimento. I registi senza più idee, si alzano e guardano in direzione della platea assonnata. La pazienza, come l’umanità del racconto, si è esaurita da tempo.

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