Crime d’amour: recensione

IL CINICO TESTAMENTO ARTISTICO DI ALAIN CORNEAU

Non bisogna confondere testamento con ultime volontà, ma semplicemente vederlo come un omaggio lasciato al pubblico, l’ultimo sforzo di un grande artista nei confronti di chi lo ha amato. Con “Crime d’Amour” Alain Corneau ci lascia una sfida giocata sulla sensualità nel duetto d’attrici, Ludivine Sagnier e Kristin Scott Thomas, quasi sempre insieme sullo schermo ad evidenziare la morbosità di un rapporto senza via di scampo. Un legame che non può avere esiti positivi, da qualunque lato lo si guardi, apprendista contro maestro, mente malleabile vs. manipolatore. Approcciandosi al film si intuisce come il finale sia il clou dell’intera narrazione, si attende con tale ansia lo scontro conclusivo che quando appare tutto il resto svanisce, anche ciò che di buona la pellicola aveva costruito mattone dopo mattone. Il film è un racconto cupo che non concede speranza, Corneau, da sempre legato alle atmosfere del genere poliziesco e al cinema americano, svela la sua natura di indagatore, detective dei complessi rapporti umani che nella vicenda uniscono le due protagoniste puntellate nell’obiettivo torbido dello sfruttamento e della vendetta. Non ci sono colpi di scena sconvolgenti, il racconto procede lento e senza sosta fino al suo epilogo, tracciando i contorni di una dimensione nefasta dei rapporti umani e basata sull’idea della non esistenza del riscatto morale. Christine, l’algida Thomas, fredda calcolatrice, si contrappone ad Isabelle, “suddita ribelle” che si fa emblema di un disagio psicologico nato dal basso e sviluppatosi fino alle categorie bene. Corneau riesce a non sprofondare mai nel banale, dirigendo il balletto di attori con consumato mestiere, peccando solo nel ritmo che talvolta diviene blando e non aiuta il racconto, che però sfoggia una scenografia di inquietante normalità, peraltro adattissima allo scopo: l’alienazione della ragione. L’emozione allo spasmo dipinta negli occhi delle protagoniste diviene in tal senso l’effettivo testamento del cineasta, lucido e spietato nel tratteggiare un’opera imperfetta quanto letale, malinconica e al contempo amarissima.

Simone Bracci

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