Harry potter e i doni della morte: recensione

INTENSITÀ EMOTIVA E GRANDI EFFETTI: HP7 NON DELUDE I FANS

La divisione può provocare scompensi, trarre in inganno, portare fuori strada. Mai come in questo penultimo capitolo la saga ha raggiunto tali vette di intensità emotiva, ma come nei precedenti sei film “Harry Potter” si è rivelato racconto dalla duplice anima.

Ne “I doni della morte” il tema del doppio è in assoluto cardine di un’intera narrazione che saccheggia a piene mani l’opera letteraria, lo convivenza terrena di Harry col suo contraltare malvagio Voldemort, la bacchetta equipollente e quindi inutilizzabile, il doppio ruolo degli amici Hermione e Ron, a volte distanti, ma sempre vicini.

I trucchi, gli inganni sono quindi una necessità commerciale, quella di allungare la broda, tipica del cinema dal volto moderno chiamato intasco facile.

Parliamo di un capitolo, questo settimo e mezzo, in cui non accade nulla di funzionale alla catarsi tanto attesa, ma assume i connotati di una pura operazione di transito, il ponte che collega un’infanzia legata all’avventura, alla stazione di arrivo del treno, se in modo drammatico e cupo non è dato saperlo.

David Yates tira fuori gli attributi e regala momenti suggestivi, di alto cinema fantasy, pur non sorretto da una comune recitazione scadente che il nostro doppiaggio certo non aiuta. Lavora di fino, il regista, sorregge gli attori evitando svarioni e concima il terreno fertile per il battaglione finale.

Ma lo fa con troppa veemenza, puntando sullo stile e non sulla qualità, che a tratti latita nel mare magnum dei richiami cinematografici, uno su tutti “Il signore degli Anelli”, che fa paragonare il giovinotto Harry (con fisico da novello palestrato di Hogwarts) ad un Frodo ultima maniera, coraggioso, ma incapace di apprendere la sua strada.

Il tema del doppio diventa quindi essenziale, perché le schermaglie sentimentali tra i protagonisti opposte alle crudeltà del signore oscuro fanno parte di uno schema narrativo aderente al romanzo, del quale i fan vanno matti e in cui troveranno maggiore attinenza ai dettagli.

Per chi non avesse letto il libro invece, ecco l’altro lato della medaglia; confusione, personaggi appena citati e soluzioni degli enigmi tirate per le orecchie, passaggi a vuoto che sviano l’attenzione dello spettatore col rischio di fargli esclamare: “tanto è un fantasy, meglio godersi solo gli effetti”.

Sarebbe un peccato se l’imminente conclusione proseguisse su questa strada, perché con “I doni della morte” la saga ha fatto un bel passo in avanti, lanciandosi negli intricati sentieri dell’universo letterario creato dalla Rowling e mettendo la freccia agli episodi precedenti, meno lucidi ed emotivamente coinvolgenti.

Come già successo con l’uscita di scena di Sirius Black, l’indubbia empatia anche nei momenti di stanca (146 minuti) è una qualità da aggiungere alla resa scenica della storia, anche laddove mister Radcliffe (ormai fuori ruolo) sgomita tutto il tempo per convincersi delle sue responsabilità: lui è il prescelto e lo scontro con l’acerrimo nemico è quanto mai alle porte.

Manca poco al termine, fine di una saga durata dieci anni, il pathos è cresciuto e siamo tutti curiosi di sapere come si concluderà. Il settimo film è servito proprio a questo, a dare un senso di traino alla nettissima divisione tra i capitoli, seguendo gli innumerevoli sviluppi “babbani” e permettendo al racconto di trovare la sua strada.

Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta è compiuto.

A cura di Simone Bracci

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