Harry potter e il prigioniero di azkaban: recensione

PAROLA D’ORDINE? CAMBIARE!

“Harry Potter e il prigioniero di Azkaban”, terzo film tratta dalla saga di romanzi scritti da J. K. Rowlings, è un film coraggioso, che deve accompagnare lo spettatore dall’infanzia ei protagonisti al loro primo accenno di maturità. Harry, Ron ed Hermione non sono più infatti dei semplici bambini come nei primi due film diretti da Crisi Columbus, ma stanno crescendo e per farlo hanno bisogno anche di qualcun altro in cabina di regia. La decisione cade sul messicano Alfonso Cuaròn, che ha già affrontato in altri suoi lavori il travagliato momento del passaggio dalla spensieratezza delle scuole elementari al turbinio interiore delle scuole medie.

A prima vista cambiano molte cose rispetto a “Harry Potter e le pietra filosofale” e “Harry Potter e la camera dei segreti”. Intanto è cambiato l’attore che interpreta il saggio Albus Silente. La morte improvvisa di Richard Harris, fa scegliere ai produttori di affidare la parte del preside di Hogwarts a Michael Gambon. Certo i cambiamenti (e i miglioramenti) più interessanti non riguardano il cast, ma lo stile con cui è narrato questo episodio. La storia si svolge meno nei meandri del fantasy e più nella realtà, con il piccolo Harry che deve cominciare a fare i conti con il suo difficile passato, venendo a conoscenza di segreti e personaggi a lui finora sconosciuti.

Il tormento principale del protagonista non è questa volta Voldemort in carne ed ossa, ma gli strascichi emotivi che Harry si porta dentro, anche se il regista non disdegna temi universali che arricchiscono la narrazione: il razzismo, la differenza tra le classi sociali. Sicuramente fino ad ora il miglior lavoro sul maghetto dagli occhiali tondi mai realizzato.

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