Venezia 68: dark horse – recensione

UNA STORIA ROMANTICA IMPROBABILE AI LIMITI DEL SURREALE

Abe è un grasso nerd vicino alla quarantina che vive con i propri genitori, lavora per il padre che gli parla solo in ufficio e passa il tempo a collezionare giocattoli. L’incontro con l’apatica Melinda lo spingerà a uscire dal proprio guscio, ma non tutto sembra facile come previsto.

L’introverso e geniale Todd Solondz torna sul lido a 2 anni da “Life during wartime” (da noi “Perdona e dimentica”) con il suo settimo lavoro. Con il suo stile unico e controverso il regista di “Happiness” gira una non troppo tipica commedia ‘indie’ che a metà della sua durata si trasforma in qualcosa di completamente diverso spiazzando totalmente lo spettatore.

Solondz mostra sempre una grande predilezione per i suoi personaggi falliti, ma troppo ingenui per capirlo e il suo Abe in particolare, interpretato da uno strepitoso Jordan Gelber, è una delle sue migliori creazioni: in particolare le scene che l’attore condivide con la partner quasi totalmente apatica Selma Blair – che purtroppo dopo i due “Hellboy” non ha riscontrato la fama che meritava- sono tra le più divertenti viste al Festival finora. L’insolita piega che prende la seconda parte è degna di un Bunuel dell’ultimo periodo, specialmente quello de “Il fascino discreto della borghesia”, nella sua completa confusione tra sogno e realtà. Qui il ritmo cala leggermente, ma spiccano ancora alcune preziose invenzioni visive.

Come nel caso di “Alpis” ci troviamo di fronte a un’opera non immediata, che probabilmente verrà odiata da molti, ma che offre ancora momenti di grande cinema da uno dei maestri del cinema indipendente USA. Uno dei pregi di Solondz poi è che racconta personaggi che solitamente le pellicole ‘mainstream’ dimenticano, dando loro finalmente lo spazio e lo spessore che meritano.

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