C’era una volta in anatolia: recensione film

PAESAGGI SCONFINATI, UN DELITTO, UN MISTERO DA RISOLVERE E UN’ESPERIENZA INTERIORE DA VIVERE

Per mano del regista Nuri Bilge Ceylan, le meravigliose steppe nel cuore dell’Anatolia diventano scenario di un delitto, anzi, della ricostruzione della dinamica di un delitto. I due assassini conducono i poliziotti nel luogo in cui hanno seppellito il cadavere ma le cose sono meno semplici di quello che sembravano inizialmente. La ricerca è lunga e nel mentre emergono caratteri, storie e riflessioni dei personaggi protagonisti, elaborando un complesso disegno di emozioni profonde.

Guardando il primo frame di C’era una volta in Anatolia colpisce immediatamente la grandezza fisica dell’inquadratura: il cinemascope (tecnica che prevede l’utilizzo di lenti che permettono una deformazione del quadro al fine di ingrandirlo) è una magia che cattura l’occhio, il cervello e il cuore; le immagini sono vaste, come i paesaggi che le compongono, sono colme di elementi – l’attenzione del regista nella composizione del quadro è minuziosa – che abbiamo il tempo materiale di osservare grazie alla durata delle inquadrature.

Il piano sequenza si pone da subito come cifra stilistica del film di Ceylan, grazie al quale risolve ogni situazione. La parola è importante quanto le immagini e non è un caso i che anche i dialoghi siano lunghi, mai spezzati dal montaggio, e piuttosto comici (alla Tarantino, per intenderci). Le bellissime location sono arricchite dalla fotografia di Gökhan Tiryaki tutta colori densi, vivi, fortissimi.

L’umorismo grottesco dei personaggi e delle situazioni si mescola all’impianto riflessivo e profondo che domina il racconto di Ceylan: proprio per questo suo carattere decisamente “adulto”, nel senso di una storia matura che richiede una particolare attenzione e sensibilità da parte di chi guarda, C’era una volta in Anatolia potrebbe risultare un po’ difficile da mandar giù; è anche un film longevo, forse troppo, e l’assenza pressoché totale di commento musicale non aiuta certo in scorrevolezza.

Grazie ad una serie di scelte stilistiche e di linguaggio, il regista (che firma anche la sceneggiatura) dilata incredibilmente il tempo di ogni scena, di conseguenza anche di ogni atto: la scansione temporale del noir classico statunitense è completamente sovvertita a favore di una temporalità titanica, che per questo potrebbe un po’ spaventare, ma che ci lascia nell’animo – come i film americani spesso non riescono a fare – un’impronta forte e decisa.

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