Dark city: focus sul film paranormale

PROYAS INCITA LE COSCIENZE CON UN’OPERA DECISAMENTE OSCURA

Se il buio e la notte pervadono ogni cosa, ogni vicolo della città, ogni angolo della nostra mente, come possiamo distinguere cosa è reale da ciò che non lo è? Se le nostre memorie, i nostri ricordi fossero artefatti, ce ne renderemmo conto? Saremmo, comunque, sempre la stessa persona? E cos’è che contribuisce maggiormente alla creazione di una coscienza individuale? Un “Io” cosciente e autonomo? Sono gli “Stranieri” a porsi queste domande: sono una specie morente alla disperata ricerca di una strada verso l’immortalità. 

Come una colonia di insetti hanno una coscienza comune e tentano di capire come in un essere umano possa svilupparsi un “Io” singolare. In che modo? In una eterna notte oscura, durante la quale il sole non sorge mai, gli “Stranieri” addormentano la città e sperimentano, mescolano e innestano memorie nuove e differenti nelle deboli menti umane. Poi ne seguono lo sviluppo come faremmo noi con delle cavie da laboratorio. John Murdoch, però, si sveglia. Senza memoria e confuso cercherà di trovare il bandolo della matassa nella labirintica “Dark City”. 

Il critico cinematografico e vincitore di un premio Pulitzer, Roger Ebert, ha definito “Dark City” il più bel film del 1998. Non possiamo proprio dargli torto: dopo il successo ottenuto quattro anni prima con “Il Corvo”, Alex Proyas dona al mondo questo fanta-thriller dal sapore retrò davvero eccellente. L’ atmosfera buia e fumosa, un po’ opacizzata delle pellicole anni ’50 viene sapientemente amalgamata con architetture e scenografie disturbanti e assurde che ricordano i quadri di Escher.

Impossibile non notare punti in comune, per tematiche e ambientazioni, con “Matrix” e “The Truman Show” che, però, uscirono nelle sale quasi un anno dopo …

Proyas sfrutta ogni elemento cinematografico a sua disposizione per confondere e depistare lo spettatore: l’assenza completa del giorno, il cambiamento continuo della morfologia della città, lo scambio ininterrotto di memorie, personalità e personaggi. Il coinvolgimento e l’empatia con i personaggi crescono minuto dopo minuto esattamente quanto l’interesse e l’attenzione. Inutile dire che ad amplificare l’effetto partecipa l’ottimo cast al completo da Rufus Sewel (Murdoch) a William Hurt, da Kiefer Sutherland a Jennifer Connelly e Richard O’Brian (il Riff Raff di “Rocky Horror Picture Show”!) nelle vesti del villain.

Con il passare dei secondi, però, ci accorgiamo che Proyas, sotto le mentite e voluttuose vesti del thriller, sta sottoponendo alla nostra attenzione dubbi, domande, ipotesi forse addirittura critiche: sappiamo cosa è reale? Ne siamo sicuri? È possibile che le nostre piccole vite siano in balia di pochi eletti che le manipolano, anche solo in minima parte?

Sembra quasi rispondere che la realtà è una finzione imbellita e impacchettata appositamente per noi che, di fatto, siamo solo topolini in un labirinto inestricabile. Ma ci si può salvare dalla spirale autodistruttiva! Solo emulando il protagonista e ascoltando la nostra mente e la nostra anima, indipendentemente da memorie ed esperienze vissute, riusciremo a trovare la strada che porta alla luminosa uscita del labirinto. 

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