Venezia 69: disconnect – recensione

UN DRAMMA CORALE CON JASON BATEMAN BEN RECITATO, MA COMPLESSIVAMENTE POCO ORIGINALE

Genere: drammatico

A volte ci si domanda come certi film possano entrare in un festival di importanza mondiale. Grazie a Muller non si è fatta più distinzione tra quali generi potevano arrivare sul Lido e quali no. Ma certi film ci si sente quasi a disagio in Sala Grande: vuoi per la confezione quasi televisiva, vuoi per il contenuto che sembrerebbe spinto a scatenare ogni genere di emozione nello spettatore, finendo magari per lasciarlo indifferente. Che Disconnect possa appartenere a queste categorie non c’è dubbio.  

Pur partendo da una base interessante, raccontare varie storie legate al mondo del web sfruttando il genere del dramma corale che ha reso famoso Altman, il film inizia subito con situazioni che si presentano come già viste e stereotipate scoraggiando ogni possibilità di empatia coi protagonisti: le scene della chat, a tratti, sembrano prese di peso da altri film come Closer, che comunque sapevano raccontare certi disagi nei rapporti umani in modo più diretto e riuscito. La pellicola procede illustrando le problematiche legate all’utilizzo errato di certe tecnologie da parte dei più giovani, ma è evidente minuto dopo minuto il senso di ‘dejà-vu’ che le affligge.

Abbiamo però una regia funzionale che sa come raccordare le varie storie ed un cast azzeccato, a partire da Jason Bateman, abituato a commedie con Jennifer Aniston e qui intenso come non si era mai visto prima, e giovani attori tra i 13 e i 20 anni, con tutte le carte in regola per diventare le star di domani. Ma non basta. Non bastano questi elementi per elevare il film sopra la sufficienza, specie nel momento in cui nel trattare temi così delicati esce fuori un prodotto ridondante e talvolta pure noioso.  

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