Berlinale 2013: closed curtain-recensione film

IL POETICO FILM DELL’IRANIANO JAFAR PANAHI

Ci sono almeno due modi e quattro occhi con cui guardare il lungometraggio di Jafar Panahi Closed courtain: focalizzandosi esclusivamente sul film oppure mettere in conto chi è e il destino che sa affrontando il suo autore.

Panahi il 2 marzo del 2010 venne arrestato per aver partecipato a movimenti di protesta contro il regime iraniano. Catturato dalle forze dell’ordine, grazie alla mobilitazione di varie associazione e del mondo del cinema il regista è stato poi rilasciato su cauzione ma dal 20 dicembre del 2010 pesa su di lui una condanna a sei anni di reclusione.

In Closed Courtain la telecamera del regista segue la vita di un uomo sessantenne chiuso tra quattro mura. L’unica compagnia che ha è il suo cane, Umberto D.. L’uomo scrive sempre e scrive di se stesso ma a parte questo tutto sembra normale almeno fino al momento in cui l’uomo incomincia, ad ogni rumore esterno unico suo contatto col mondo, a coprire le finestre con drappi neri. La storia va avanti con l’arrivo nella grande dimora di un ragazzo e una ragazza che scappano da quelli che chiamano “loro”. Il ragazzo va via con la promessa di ritornare presto e lei rimane col vecchio signore tentando continuamente di togliere dalle finestre quei drappi e liberarsi. Al di sotto di alcune lenzuola bianche che la ragazza riesce a far cadere si vedono chiaramente locandine di film di Panahi e ad un certo punto è lo stesso cineasta ad entrare in scena palesando che i personaggi del lungometraggio non sono altro che immagini della sua fantasia. Il regista dialoga con loro trovandosi molto più a suo agio con il sessantenne rinchiuso che con la ragazza che vorrebbe liberarlo e portarlo di nuovo nella realtà.

Se ci focalizza esclusivamente sull’opera cinematografica del regista iraniano ci si ritrova dinnanzi a un grande film visionario, claustrofobico nelle immagini e pregno di dialoghi assolutamente surreali eppure funzionali al racconto immaginifico che Panahi propone. Se invece si va oltre e si guarda la pellicola per quella che è, ovvero un grido che unisce nelle sue immagini libertà, paura e denuncia, ci si trova davanti a un capolavoro denso di significati simbolici dove ogni inquadratura, gesto o parola sono un messaggio che lo spettatore non può non cogliere rispondendo con un applauso si stima e solidarietà.

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