Bianca come il latte rossa come il sangue: recensione film

TORNATO AL GRANDE SCHERMO DOPO OTTO ANNI DI ASSENZA GIACOMO CAMPIOTTI DIRIGE UNA PELLICOLA FRAGILE E SCONTATA

GENERE: drammatico

DATA DI USCITA: 4 aprile

Stereotipato: agg. [propr., part. pass. di stereotipare]. – 

1. Stampato, riprodotto con il sistema della stereotipia (sinon. del più com. stereotipo, in senso proprio): ristampa stereotipata. 

2. fig. Ripetuto secondo un modello fisso, sempre uguale, in modo meccanico, e perciò non spontaneo, convenzionale. È questo il primo aggettivo, nel senso più stretto e negativo del suo significato, che viene in mente dopo aver visto il nuovo lavoro di Giacomo Campiotti che, reduce da una lunga parentesi lontana dal grande schermo per lavorare ad alcune fiction, torna con Bianca come il latte, rossa come il sangue film tratto dall’omonimo best seller di Alessandro D’Avenia.

Leo (Filippo Scicchitano) è un ragazzo di 16 anni innamorato di una sua compagna di scuola di un anno più grande di lui, Beatrice (Gaia Weiss), alla quale non riesce a confessare i suoi sentimenti fino a quando una grave forma di leucemia non colpisce la giovane e un professore (Luca Argentero) attraverso le sue parole non infonde finalmente al protagonista il coraggio di farsi avanti.

Il soggetto della storia, di per sé non di certo nuovissimo, potrebbe comunque essere il punto di partenza di un racconto che, attraverso l’introspezione dei vari personaggi, porti a creare un intreccio di spessore ma ciò nel film di Campiotti non accade.

Tutti personaggi che girano attorno al protagonista, compreso Leo stesso, risultano stereotipati: l’amico del cuore sfigato, l’amica di sempre brava a scuola e segretamente innamorata di lui, i ragazzi più grandi vestiti di nero per rendere immediatamente riconoscibile il loro ruolo di “cattivi” o “bulli”. Anche il professore, che nel lungometraggio ha il volto di un Luca Argentero il quale alza un po’ la il livello della recitazione dei suoi colleghi, è banale e arriva a scomodare anche Dante ghettizzandolo nel ruolo di poeta dell’amore.

Tralasciando la parte iniziale, troppo lunga, in cui si cade anche nel grottesco in alcune scene che raccontano la paura di Leo nel confessare i propri sentimenti a Beatrice, il film sale leggermente di livello nel momento in cui la ragazza si ammala. È infatti la splendida e bravissima Gaia Weiss a tenere in piedi le fila dell’intera pellicola con una grazia rara da trovare nelle nuove generazioni di attrici e in un ruolo non semplice da interpretare.

Purtroppo, però, non basta la bella interpretazione della Weiss per salvare l’intero assetto del film che, tra le musiche dei Modà e dialoghi surreali nella loro semplicità e sempre scontati, sembra far parte di quel genere di pellicole palesemente dedicato agli adolescenti di cui speravamo di esserci liberati e che fanno capo ai primi romanzi di Federico Moccia.

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