Cannes 66: borgman – recensione film

L’OLANDESE VAN WARMERDAM REINVENTA IL “TEOREMA” DI PASOLINI

Nel 1968 Pier Paolo Pasolini scrisse e diresse Teorema, lungometraggio nel quale una famiglia d’industriali milanesi viene sconvolta dall’arrivo in casa di un giovane 25 enne, enigmatico e affascinante, che riesce a ottenere le grazie della madre e ad avere rapporti sessuali con entrambi i figli, la domestica e il capofamiglia. Quando il ragazzo riparte niente è più come prima. Poco basta a spezzare il labile equilibrio della borghesia: questo Pasolini, a suo modo, racconta in Teorema salvando solo la donna alla pari, che di quel ceto sociale è vittima, facendola fluttuare nell’aria come se fosse una Santa.

L’olandese Alex Van Warmerdam con l’ultimo suo lavoro, Borgman, fa qualcosa di molto simile a ciò che fece l’intellettuale italiano nel suo film aggiungendo, però, nel tipo di narrazione e di regia qualcosa che ricorda sia il Michael Haneke dei tempi di Funny games sia l’ironia sorniona dei fratelli Coen.

Camiel Borgman (Jan Bijvoet) è un personaggio particolare. Lui dorme in una bara sotto terra nel bosco come se fosse un vampiro. Un giorno si sveglia di soprassalto a causa dell’arrivo di un prete e due uomini che vogliono eliminarlo. Borgman si ritrova così costretto a doversi nascondere e si imbatte nella villa di Marina  (Hadewych Minis) e Richard (Jeroen Perceval) tranquilla coppia sposata con tre figli. Richard respinge lo strano uomo ma Marina cede alla sua richiesta di aiuto e lo tiene nascosto in casa per alcuni giorni. Non contento, però, Borgman, si insinua nella vita della famiglia uccidendo in macabro modo il giardiniere e riuscendo a farsi assumere come suo sostituto rendendosi irriconoscibile.

È palese che, come nell’opera di Pasolini, Teorema, lo sconosciuto, in Borgman il protagonista è metafora di ciò che spezza la quotidianità  mettendo alla luce le fragilità e la vera essenza di un certo tipo di famiglia. Lo stesso regista non nasconde che il suo lungometraggio è nato per dimostrare quanto il male si banale nel suo annidarsi dove meno si aspetta.

Il film quindi è un attacco, neanche troppo sottile, sia all’apparenza che a un atteggiamento misogino e guardingo verso l’estraneo della società.

Difficile catalogare Borgman, o ghettizzarlo, in un genere cinematografico ben preciso dato che il suo essere varia tra il dramma, la commedia e il grottesco.

E come spesso capita ai film che si assumo l’onere e l’onore di essere liberi da un genere per la loro varietà di registri, la pellicola di Van Warmerdam ha la capacità di dimostrare un vecchio teorema in un modo nuovo e sorprendente.

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