Venezia 70 – Medeas: recensione film (orizzonti)

UN DRAMMA CHE PRENDE SPUNTO DAL MITO GRECO AMBIENTATO NEL SILENZIO DEL CUORE DI UN’AMERICA RURALE

Dietro una telecamera intenta a inquadrare gli infiniti paesaggi di un’America rurale alle prese con una forte siccità, si consuma nel silenzio e nella lentezza il dramma di una famiglia di allevatori dove Ennis, severo padre e instancabile lavoratore, prende lentamente il controllo su sua moglie Christina, sordomuta, e i suoi figli visibilmente imprigionati da una vita che non gli basta più.

Con una lentezza che rispecchia alla perfezione il tempo dilatato in cui vivono i personaggi che si muovono in Medeas, Andrea Pallaoro, accompagna lo spettatore all’interno di una famiglia degli anni 60’ dove l’omertoso tacere, spezzato solo dalla rabbia di un pater familias stanco che di tanto in tanto viene fuori come un moto di dignità, fa da padrone mentre tutto si distrugge sotto il sole cocente.

Christina, la cui sordità è metafora del non sentire, sentimentalmente, più nulla per il suo anziano marito, consola la sua esistenza con un aitante benzinaio mentre i suoi figli velocemente crescono ma vengono trattenuti della piccolezza della mentalità bigotta del padre.

Ennis intanto lavora senza sosta, i suoi occhi che spesso si arrossano sono coscienti di quel che sta accadendo, eppure l’uomo sembra non voler fare nulla se non, anche con la poca forza rimastagli, cercare di non lasciare andare la sua famiglia. Il tragico epilogo dal quale si palesa il motivo per cui il titolo della pellicola si rifà al Mito greco di Medea non tarda ad arrivare.

La splendida fotografia, la maestria con la quale Pallaoro è in grado, sgranando le immagini, di far vedere la calura nella quale vivono i suoi personaggi, il talento registico dove nessuna inquadratura sembra lasciata al caso, non bastano a far sì che catturi lo spettatore.

Il problema non sta nei silenzi che, al contrario, sono fondamentali per inserirsi immediatamente nell’infelicità del contesto del lungometraggio e neanche in quella lentezza e nella totale mancanza di pathos, opportuna per quasi tutta la durata del film. Il vero neo nella pellicola sta nell’ostinazione di non voler mai cambiare registro, neanche quando la situazione precipita e il peggio sta per accadere.

Nonostante la piattezza con la quale il regista decide di narrare le vicende sia studiata e forse anche funzionale alla sensazione che il lavoro vuole lasciare, il rischio in cui incappa il film è quello di risultare noioso e di portare lo spettatore tra le braccia di un altro personaggio della mitologia greca: Morfeo.

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