Venezia 70 – The Sacrament: recensione film (orizzonti)

TI WEST DALL’HORROR PASSA AL THRILLER, CONSEGNANDO UN PRODOTTO DIGNITOSO NON PRIVO TUTTAVIA DI STEREOTIPI

the-sacrament locandina

Per via della solita distribuzione italiana, il nome di Ti West è sconosciuto ai più in Italia: eppure chi ha visto i suoi film puo’ giurare che nella marea di pellicole horror senza nulla da dire e senza alcuna tensione che macinano incassi, il nome di West è sinonimo di Paura e Mestiere, due sinonimi necessari per chi vuole dedicarsi a questo genere senza rimanere ‘uno dei tanti’. Ora il regista poco più che trentenne ha deciso di cambiare registro per dedicarsi a una pellicola ‘found-footage’ che analizza ciò che potrebbe accadere in una comunità religiosa isolata del mondo, quando due reporter intervengono a fare delle indagini per trovare una donna creduta scomparsa che ha incoraggiato con una lettera il fratello e i suoi due amici giornalisti a raggiungerla in una comunità religiosa in un luogo misterioso. I tre arrivati si troveranno di fronte a una realtà completamente diversa da quello che si aspettavano.

The Sacrament non è la boccata d’aria di cui il genere ‘found-footage’ ha disperatamente bisogno, ma è una ‘wild ride’ come direbbero i nostri colleghi statunitensi che vale la pena di essere presa soprattutto da parte di chi è appassionato a tematiche macabre ed è (perché no?) da sempre contro ogni tipo di fanatismo. West ci conduce in una comunità apparentemente idillica, dove tutti partecipano per rendere la vita del prossimo migliore, non hanno alcun collegamento col mondo esterno, se non la posta, e la sera passano il tempo a cantare per la gloria di Dio (…).  Al tempo stesso il viaggio a cui prendiamo parte si costella di elementi ben noti ai fan del genere horror, come la bambina silenziosa che appare nei momenti più inaspettati e quei perenni sorrisi spensierati sui volti di tutti che fanno presagire il peggio. Infine c’è lui, il Padre, un personaggio all’apparenza tranquillo, che magari non farebbe del male a una mosca, ma che si presenta come tremendamente manipolativo e capace di tenere sotto scatto chiunque. Gene Jones, visto in Non è un paese per vecchi, in questo ruolo potrebbe ricordare il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman in The Master, pur senza l’immenso carisma di quest’ultimo: quella di Jones  è ad ogni modo un’interpretazione inquietante e di spessore, senza la quale probabilmente il film non sarebbe stato lo stesso.

West confeziona dunque un’opera d’impatto e, anche con la ‘parte di preparazione’ effettivamente un po’ lunga, riesce a consegnare un affresco crudele con cui vengono messi in luce i peggiori difetti –e gli apparenti pregi- del fanatismo religioso. Magari si poteva lavorare di più sull’aspetto manipolativo del Padre, insistendo sul lato ‘malato’ del personaggio, guardando meno al box-office e più alla durezza del messaggio, come è riuscito invece il regista di Miss Violence, visto sempre da queste parti. Si tratta forse di un mezzo passo falso per West, ma il giovane regista si conferma esponente di un cinema estremo, che lascia da parte ogni consolazione, per concentrarsi sul marcio che c’è nel nostro mondo: si vorrebbe guardare oltre, ma la cosa migliore risulta stare seduti e assistere con lo stomaco attorcigliato su se stesso, coscienti che tutto questo potrebbe succedere dall’altra parte del globo.

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