L’OPERA PRIMA DELL’ALLIEVO DI KOJI WAKAMATSU PALESA SENZA SCONTI L’ATROCITÀ DELLA GUERRA E L’INCAPACITÀ DI POTERLA DIMENTICARE
Il passato è una zavorra che la mente può gestire ma che il corpo non riesce a dimenticare, perché sul corpo l’inconscio, il vero, non può nulla: questo racconta Junichi Ioue nel suo lungometraggio A woman and a war e lo fa attraverso le storie di tre personaggi che di intrecciano sul finale Della Seconda Guerra Mondiale.
Una donna venduta a un bordello come prostituta non riesce più a provare piacere, uno scrittore che non riesce più a fare il suo mestiere ha perso ogni motivazione per vivere e un soldato congedato anzitempo per aver perso una gamba non riesce a smettere di fare le stesse atrocità compiute in guerra anche in patria e senza motivo. Queste sono le tre complesse personalità che il cineasta giapponese, alla sua prima opera, racconta senza dar loro la benché minima possibilità di riuscire ad andare avanti nella loro normalità, anzi, narrando con angoscia e dolore l’incapacità di poter dimenticare.
Con uno stile che non può non ricordare quello del mentore di Ioue, Koji Wakamatsu, imperfetto nel digitale che non vuole raccontare nient’altro se non il reale, il regista punta alla verità e usa proprio i suoi protagonista per mostrarla al pubblico come quando il reduce di guerra ritrova il suo orgasmo innanzi a uno stupro, pur tentando prima di fermarlo.
L’obiettivo di Ioue è chiaro e la forza delle immagini lo palesa senza sconti: non si può dimenticare il male che si è fatto in guerra altrimenti lo si ripeterà per tutta la vita.