Vijay – Il mio amico indiano: recensione film

UNA COMMEDIA PIRANDELLIANA DOVE LE MASCHERE SI SUSSEGUONO IN UNA VISIONE FIABESCA DELLA REALTÀ 

locandina VijayGENERE: commedia

DURATA: 96’

USCITA IN SALA: 13 febbraio

VOTO: 2.5 SU 5

In Vijay – Il mio amico indiano è facile riscontrare una matrice pirandelliana, la ritroviamo nel carattere amaro della commedia, nell’alienazione quotidiana a cui è sottoposto l’uomo e nel gioco, che diviene una pratica per sopravvivere, dello scambio continuo delle maschere che i personaggi, in questo caso il protagonista, indossano nella realtà. Ovviamente non è questo il caso che permette di unire il genio di Pirandello a tale commedia ma le caratteristiche, se pur trattate con maggiore banalità, sono di gran lunga simili e vicine a quel genere di letteratura che traeva forza dagli equivoci e dai moti interni a cui erano sottoposti i personaggi.

Will Wurder (Moritz Bleibtreu) è un attore depresso e costretto ad interpretare un coniglio verde tanto amato dai bambini. La sua carriera non decolla e lo stesso vale per la sua vita. Piatta e ferma come la relazione con la moglie. Il giorno del suo 40° compleanno, per una serie di equivoci, è anche quello della sua morte apparente. Will aiutato dal caro amico Rad decide di vestire i panni di Vijay, un sikh dai modi raffinati ed eleganti. Il nuovo “io” non piacerà solo agli amici e alla famiglia, ma allo stesso Will. Chiunque conosca anche minimamente la letteratura potrà nella pellicola di Sam Garbaski riconoscere alcuni tratti non solo del Fu Mattia Pascal ma anche di Uno Nessuno e Centomila.

Il personaggio anche qui è il perfetto ritratto dell’antieroe, annoiato dalla propria esistenza, deluso dalla famiglia e depresso dal desolante lavoro. Indossa così una maschera, quella del coniglietto verde, quella del marito pacato e mai pronto alle discussioni, quella da tirare fuori la domenica con i suoceri e i genitori, quella del padre e infine quella del banchiere indiano. Indossando quest’ultima si accorge non solo di piacere più agli altri ma di piacere di più a se stesso. L’antieroe pirandelliano esce dalla sua condizione per diventare quello che ha sempre desiderato. Fosse davvero così semplice, bastasse un turbante e della barba finta a cambiare noi stessi e l’idea che gli altri si sono fatti di noi.

Dopo un inizio degno di nota il film diviene un’altra, l’ennesima, favolistica visione della realtà che poco aderisce al modello di ciò che viviamo tutti i giorni. Che fine ha fatto l’alienazione iniziale? Dove sono finiti i problemi di coppia e i silenzi? Spariti, dissolti con un turbante colorato e uno strano accento. Preferiamo il solitario Mattia Pascal che chiuso in una biblioteca porta i fiori alla tomba di sé stesso. Prima o poi il noi, quello vero, quello sepolto tornerà a bussare alla porta della nostra vita e non basterà nessuna maschera a coprirci il viso, guardandoci allo specchio ci riconosceremo, sempre.

 

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