Giorgio Moroder: l’intervista

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HA SCOPERTO DONNA SUMMER E HA LAVORATO CON I DAFT PUNK, GIORGIO MORODER, TRA CINEMA E MUSICA, CI RACCONTA LA SUA CARRIERA

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Elton John, Cher, Freddie Mercury, Eurythmics, Daft Punk, David Bowie e Donna Summer; questi sono solo alcuni dei tanti grandissimi artisti con cui ha collaborato il produttore e compositore discografico Giorgio Moroder. Quasi cinquant’anni di carriera in giro per il mondo, partito da Ortisei e arrivato a Berlino, poi Monaco e l’America che gli ha regalato ben tre premi Oscar. Una vita in viaggio, una vita all’insegna dei disc jockey, della rivoluzione musicale e sonora, un percorso professionale che ora lo vede anche partecipe del documentario What Difference Does it Make? curato dalla Red Bull Music Academy e diretto da Ralf Schmerberg. Il doc, con tantissimi artisti del panorama newyorkese, esplora il cambiamento della musica e di tutti gli interpreti che ne fanno parte all’interno e per mezzo della Red Bull Music Academy. Special Guest assoluto Giorgio Moroder che proprio presso l’Academy è stato tutor e poi interprete di un incredibile DJ set.

Com’è stato dar voce e musica, e di conseguenza colore, ad uno dei capolavori del cinema muto come Metropolis? Molti, al tempo, storsero la bocca ma, alla luce dei fatti, è stato uno dei mix più riusciti di sempre.
La produzione di quest’opera è durata tanto, dall’inizio degli anni ’80; l’acquisizione dei diritti, la pellicola utilizzata, il formato e la durata del film. La colonna sonora che ho curato, forse, era un po’ troppo rock e i pezzi che scelsi all’inizio, poi, in fase di produzione erano già invecchiati. Però, alla fine, venne fuori un bel progetto e ha permesso a molti giovani di avvicinarsi al cinema muto, hanno aperto gli occhi. Prima del mio lavoro su Metropolis i film muti avevano un loro canale, ma poi hanno avuto influenza e successo, anche grazie al mio lavoro e quello di Freddie Mercury.

Moroder, hai viaggiato e girato il mondo in lungo e in largo qual è, secondo le tue sensazioni e percezioni, la musica che accomuna ogni angolo del globo? E in quale luogo hai trovato più ispirazione?
Ascolto poco la radio, in verità. Le idee però mi vengono ovunque: proprio l’altro giorno ho sentito un pezzo in un ristorante, l’ho preso e messo in una canzone. Ci stava bene. Lo studio di produzione, per certi versi, non serve, è in giro che si trova l’ispirazione, il suono giusto.

Nel documentario in cui partecipi, curato dalla Red Bull Academy, New York è il vero filo conduttore, il personaggio onnisciente: come fa un giovane artista a poter emergere in una piazza del genere, in un melting pot così vasto?
Al giorno d’oggi con i computer è più facile, con un programma discreto puoi fare cose eccezionali ma è fondamentale avere il talento. Senza di quello non puoi andare da nessuna parte in un panorama così vasto e competitivo.

Era più facile fare musica negli anni ’70 o adesso?
Oggi è molto più facile, ci sono i social network che aiutano moltissimo prima, senza un editore, uno studio e i mezzi era quasi impossibile. Ora tutti possono condividere il proprio lavoro, lo metti su YouTube e sei visto da milioni di utenti però il talento e l’impegno sono alla base, senza di loro non si fa nulla. Devi continuare a scrivere, comporre e registrare, il pezzo buono, poi, arriva.

Sempre a proposito della Red Bull Academy: com’è stato fare da tutor ai giovani talenti e soprattutto com’è stato confrontarsi con le loro speranze?
Ho parlato con loro raccontandogli le mie esperienze di vita e di lavoro, delle mie collaborazioni con David Bowie e Donna Summer, ho tenuto una lessons ma sono già molto esperti, è stata una conversazione molto piacevole, hanno ascoltato le mie storie.

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