Cannes 67 – Le Meraviglie: intervista alle sorelle Rohrwacher

ALICE ROHRWACHER: “LE MERAVIGLIE. È UNA FIABA MATERICA E CRUDA, LA SI PUÒ LEGGERE COME LA STORIA DI UN RE CON QUATTRO FIGLIE CHE A UN CERTO PUNTO INCONTRANO UNA FATA BIANCA”

A un anno dalla presentazione al Festival di Cannes de La Grande Bellezza l’Italia torna sulla Croisette rappresentata da Alice Rohrwacher, classe 1981, che con il suo secondo lungometraggio Le Meraviglie è in corsa per la Palma d’Oro.

Oltre a una splendida Monica Bellucci il lungometraggio, che narra la storia di una famiglia di apicoltori capeggiata da un burbero padre tedesco, vede tra i protagonisti anche la sorella della regista, Alba.

Alba, Alice quanto c’è di autobiografico in Le Meraviglie?

Alice: non è un film autobiografico, ma è molto personale. È una storia per noi molto familiare: una famiglia con i genitori di nazionalità diverse, il padre apicultore ma non è da considerarsi un’opera totalmente autobiografica.

Alba, come è stato condividere questa importante esperienza con tua sorella?

Condividere questo stesso immaginario con mia sorella che era dietro la macchina da presa ovviamente ha reso le cose più facili. Ci siamo sempre sostenute e aiutate in passato, ma da lontano. Stavolta abbiamo provato a stare vicine, ad affrontare insieme un mondo che ci lega in maniera profonda, e che riguarda la nostra memoria, la nostra educazione. Lavorare con Alice è stato sorprendentemente naturale: il mio personaggio è quello che cerca di mettere sempre pace in famiglia, e dopo un solo giorno di prove con le bambine si era già instaurata la giusta atmosfera per le riprese.

Alice, a cosa è dovuta la scelta di usare dialoghi in diverse lingue?

Ho voluto raccontare un’estate di questa famiglia, non sappiamo quello che c’era prima, né quello che verrà dopo. L’espediente delle lingue diverse è allora un modo per raccontare in maniera estemporanea aspetti di questa famiglia, da dove viene, come si è formata, senza doverli spiegare nella trama. La lingua diventa anche uno spazio in cui affrontare certi argomenti: il tedesco viene usato in alcune situazioni, il francese in altre. Il padre è una specie di bambino, ha difficoltà ad esprimersi in qualunque lingua, ma capisce molte cose in silenzio. L’aspetto linguistico è fondamentale per il film.

Quello che colpisce nel film è anche il paesaggio che al contempo riesce ad essere inospitale e fiabesco…

È una fiaba molto materica e cruda, la si può leggere come la storia di un Re con quattro figlie che incontrano una fata bianca, ma il fatto che sia tutto raccontato attraverso il lavoro mi ha permesso di rimanere ancorata ad una sensazione di realismo, lasciando comunque allo spettatore lo spazio per l’interpretazione, un aspetto che mi sembrava importante, perché viviamo in un momento in cui di norma ci viene lasciato molto poco spazio, come spettatori. Il film è nato anche dal desiderio di raccontare il territorio in cui sono cresciuta, una zona di confine in Italia. Avevo voglia di lavorare a casa, e da questo punto di vista le api sono state un elemento ulteriore di aiuto.

 

 

 

 

 

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