Timbuktu: recensione film

IN TIMBUKTU SISSAKO RACCONTA LA COLONIZZAZIONE ISLAMICA USANDO L’ARMA DEL PARADOSSO

TimbuktuGENERE: drammatico

DATA DI USCITA: 12 febbraio 2015

DURATA: 100’

VOTO: 3,5 su 5

Tra i modi per raccontare e denunciare gli eccessi dell’Islam e delle regole imposte dai suoi estremisti senza retorica ce n’è uno infallibile: il paradosso.

Timbuktu è in mano ai fondamentalisti islamici jihadisti che impongono con forza ogni tipo di divieto e costringono le donne a coprirsi il più possibile, neanche le mani e i piedi possono essere mostrati. Kidane è un uomo che per il quieto vivere suo e della sua famiglia ha deciso di spostarsi fuori da quella città che non lascia liberi e di andare verso la pace delle sponde del fiume Niger.

Oltre che alla moglie e alla figlia, Kidane è affezionato anche a Issan un bambino che lo aiuta con il pascolo delle pecore e che è particolarmente legato a una di loro, GPS. Quando l’animale viene violentemente ucciso davanti al giovanissimo ragazzo l’uomo cerca di fare chiarezza sulla situazione che però gli sfugge di mano.

La semplice trama di Timbuktu è in realtà solo un mero spunto narrativo per raccontare la corale verità della condizione umana di chi sopravvive sotto una colonizzazione fatta di divieti. La denuncia del cineasta Abderrahmane Sissako usa come arma quella dell’ironia senza però alleggerire mai una realtà severa lanciando così un messaggio chiaro, limpido e forte che non sussurra mai al vano orecchio del pietismo.

Il paradosso del non comprendersi è alla base del lavoro del regista che volutamente non caratterizza i suoi personaggi perché il suo fine è quello di mostrare una condizione generale, da qui il titolo che prende spunto da un luogo e non da una persona, dove la differenza di linguaggi rende impossibile il confronto anche tra i colonizzatori jihadisti rendendo così poco credibili le loro convinzioni e l’intero loro operato.

 

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