Resistenza Naturale: recensione film

JONATHAN NOSSITER DIRIGE RESISTENZA NATURALE, UN DOCUFILM CHE PARLA DI CONSUMO CONSAPEVOLE E DI ALIMENTAZIONE SANA

locandina-resisteza-naturaleGENERE: documentario

DURATA: 85′

USCITA: 29 maggio

VOTO: 2 su 5

”La cosiddetta ”crisi” in Europa e Nord America è un eufemismo venduto da coloro che non hanno perso nulla in questi ultimi anni, creato per attutire lo shock altrimenti inaccettabile dovuto a questo nuovo ordine economico-sociale. Tra le vittime c’è anche la cultura del gesto artigianale autentico, libero e antico come la nostra civiltà, danneggiato oggi come mai prima d’ora. Il mondo del vino.”
Jonathan Nossiter

Jonathan Nossiter con il suo Resistenza Naturale compie un bel gesto d’amicizia, il film nasce infatti come una conversazione fra i personaggi sullo schermo e Jonathan stesso. Il regista usa quindi la sua creatura per parlare di consumo consapevole e di contrasto alla grande industria agroalimentare in favore di un’alimentazione sana e libera dai veleni, raccontando la storia di un gruppo di viticoltori malcontenti, i ribelli del “vino naturale”, membri di una Resistenza moderna contro l’Unione Europea. Un’Europa percepita distante, nemica, quasi complottista. Il tutto alle porte delle elezioni, in un momento di crisi economica-politica in cui cresce l’euro-scetticismo sia di destra che di sinistra. Alla distribuzione, limitata, la Lucky Red si accolla il fardello di un’intera generazione di viticoltori, un gruppo avanguardista, che non rifiuta la tecnologia e che usa i prodotti della modernità per fare ecologia. Ecologia culturale. Essi hanno una coscienza storica ed etica; il loro compito? Salvaguardare la tradizione non per conservatorismo ma per diffondere nelle generazioni future un prodotto salutare e naturale. Badate, non si sentono degli agricoltori. Non fanno il vino, è la Terra che fa nascere l’uva. Si definiscono solo dei “tramite”. Ed è qui che si stabilisce un parallelismo fra l’autore e i nostri. Proprio come il gruppo, J. Nossiter è un “tramite”, non dirige un film, non crea un’opera. Egli stesso preferisce definirsi “non autoriale”.
Eppure Resistenza Naturale è autoriale, gli manca uno scheletro ovvero una mano ferma e una regia limpida ma descrive appieno quello che cerca di spiegare il regista. Il messaggio politico è forte ed ancor più forte è il messaggio etico finale, l’obiettivo dei viticoltori? Creare nuovi circoli virtuosi. Rifiutando le abituali leggi dell’agricoltura regolata dalle normative europee e si cimentano in una produzione rigorosamente biologica. Al di là del validissimo messaggio che manda il film, la pellicola ha una serie di pecche disseminate qua e là.

La regia e il correlato gioco della macchina da presa lasciano a desiderare, le inquadrature spesso sfocate e le zumate caotiche la rendono molto amatoriale. La paesaggistica meravigliosa dei territori della Toscana o delle Marche viene così indebolita. Se da un lato il montaggio, senza dubbio curioso e cinematograficamente celebrativo tanto da esser pieno di rimandi a pellicole di spiccata importanza (Comizi d’amore e Roma città aperta fra tutte) ha il suo perché, dall’altro lato è proprio la presenza di questo “film nel film” a rendere il film corposo. La pellicola dalla durata fin troppo breve è un brodo dilungato grazie a una serie di spezzoni legati e collegati a grandi classici e non della cinematografia mondiale. Importanti invece le critiche a grossi colossi del calibro di Eataly, tanto da essere ribattezzata dal regista Vendeataly, emblema della speculazione gastronomica usate per evidenziare il ruolo dei viticoltori. E si torna al virtuosismo del gruppo, un “Mucchio Selvaggio” senza armi il cui virtuosismo corrisponde a niente meno che forte disobbedienza civile. La loro etica garantisce prezzi democratici e prodotti di altissima qualità. Lo spettatore comprende come il vino e il prodotto naturale in generale non può essere elitario.

Purtroppo però ad ogni pro morale c’è un contro tecnico e la pellicola ritorna scissa in due. Si sperimenta, pochi minuti sono dedicati ad uno spot pubblicitario in risposta al caso Barilla (?) che c’entra ma per vie traverse. Ed ancora, l’allegoria, in chiave enologica sul cambiamento dei gusti dello spettatore e della possibilità del ritorno alla qualità tradizionale di un film classico attraverso la tecnologia digitale. Il nuovo che guarda al passato. Il punto è che si usano degli effetti sonori (il suono del grammofono) e grafici (un verde digitalizzato prima, un bianco e nero poi) non troppo riusciti.
Fra i protagonisti poi pur essendoci innegabilmente dei vignaioli che acquistano il ruolo ricoperto dagli intellettuali, contestatori dell’autorità, è presente un atteggiamento radical-chic neanche troppo velato.
Non che la pellicola del regista sia radical-chic ma neanche lui nega come siano presenti quei sentimenti in una serie di persone legati ai nuovi viticoltori “naturali”. L’invito alla coltivazione rende lo spettatore in sala una specie di Che Guevara dell’era 2.0. La campagna viene vista come una fuga dai più, una meta idilliaca, una Terra Promessa che se guardiamo al lungo periodo verrebbe urbanizzata. Un surrogato della città abbandonata come abbondati sono i suoi pregi e difetti. Si dimentica dunque che la campagna a volte è fin troppo dura, che la Natura non è una proprietà, non tutte le coltivazioni e non tutti i territori sono “facili” e soprattutto, critica allo spettatore, l’avere un orticello non fa di noi dei membri della Resistenza (Naturale).

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