LE ALI DELLA LIBERTÀ: UN CAPOLAVORO CHE DESCRIVE CON POESIA IL DRAMMA CARCERARIO
Spesso nella nostra rubrica abbiamo notato come molti capolavori del cinema passato e presente siano stati ispirati da grandi romanzi della letteratura. Sicuramente uno dei nomi più gettonati è quello di Stephen King, che grazie al suo genere, ha riempito le tasche di molte produzioni cinematografiche. Paradossalmente però le pellicole di maggior successo tratte dalla penna dello scrittore non provengono dall’horror come si potrebbe pensare, bensì passano da altri lungometraggi come: Stand By me (1986), Il miglio verde (1999) o il film sul quale ci focalizzeremo, Le ali della libertà uscito nell’ormai lontano 1994.
Anno 1946, Stati Uniti d’America, Maine. Andy Dufresne (Tim Robbins) è un giovane impiegato di banca che viene condannato a due ergastoli nella prigione di Shawshank reo di aver ucciso la propria moglie ed il suo amante. Dopo varie insidie e altrettanti nemici, Andy inizia lentamente a socializzare con altri detenuti, in particolar modo con Ellis Boyd Red Redding (Morgan Freeman). Grazie alla sua nuova mansione da contabile, il pacato banchiere inizia a godere dei favori dei secondini e attira l’attenzione del perfido direttore Samuel Norton (Bob Gunton), che sfrutta con avidità e immoralità le capacità matematiche del prigioniero. Dufresne però è un sognatore e, nonostante i due ergastoli, la sua voglia di sperare e credere nella giustizia e nella libertà lo porteranno a compiere gesta straordinarie.
Molte le nomination agli Oscar del 1995, ma rimaste tali per il fatto che la pellicola ebbe la sfortuna di uscire lo stesso anno del lanciatissimo Forrest Gump. Unito a questo, anche lo scarso riscontro economico al botteghino lo fece ingiustamente passare in sordina. Solamente il benedetto Home-Video e il conseguenziale passaparola diedero la giusta luce a questa bellissima storia.
Una trama forte, troppo sottovalutata, che tratta il dramma carcerario in modo intelligente evidenziandone i punti chiave. Questi passaggi focali sollecitano la nostra attenzione attraverso il districarsi degli eventi e si possono notare tramite varie simbolizzazioni. Dalla claustrofobica Shawshank portatrice di oppressione, alla violenza gratuita sempre in agguato dietro ad ogni angolo fino al garantismo totalitario impresso sui manganelli di ogni carceriere.
Questi punti cardinali spesso si trovano nella maggior parte dei film trattanti la stessa tematica, ma in questo caso ci sono due novità assolute: Il tempo e la sua infinità (gli anni che passano impietosamente) e i tratti caratteriali del protagonista (chiara vittima di un sistema giuridico fallato).
Interpretato con classe, semplicità e tanta commozione dai due protagonisti Robbins e Freeman, questa Opera trova il suo cuore palpitante nell’ottima regia di Frank Durabont, non solo abile dietro la cinepresa, ma anche in grado di riadattare la sceneggiatura rimanendo fedele alla fonte originale.