Finding happiness – Vivere la felicità: recensione film

FINDING HAPPINESS, TRA SPIRITUALITÀ E PROMOZIONE DI UN DIVERSO MODO DI VIVERE

locandina-finding-happinessGENERE: docu-film
DURATA: 95 minuti
DATA DI USCITA: 20 novembre 2014
VOTO: 2 su 5

Finding happiness, ovvero “non vivere per essere infelice, ma per essere felice”. È quello che vorremmo tutti, passare un’esistenza senza delusioni, tristezza, collera, ma solo pace, armonia, felicità.

Juliet Palmer è una giornalista che viene incaricata di scrivere un pezzo su una comunità spirituale presente in Americana da cinquant’anni, e che ha sviluppato nel corso del tempo delle pratiche alternative per risolvere i problemi del mondo. Si trova così catapultata per una settimana lontana dal caos cittadino e immersa nel silenzio e nella bellezza della natura. L’incontro col fondatore Swami Kriyananda la porta a mettere in discussione il suo scetticismo iniziale e a decidere di cambiare la sua vita.

 

Il film racconta attraverso il personaggio di Juliet (Elizabeth Rohm), unico inventato insieme al capo della rivista Profiles, la reale vita delle comunità Ananda, oggi con sedi in tutto il mondo (anche in Italia, ad Assisi). La prima, quella nei pressi di Nevada City, in cui è ambientato il film, fu fondata alla fine degli anni Sessanta da Swami Kriyananda (che interpreta sé stesso), il più noto discepolo di Paramhansa Yogananda, primo grande maestro dello yoga negli Usa. Queste comunità e il loro stile di vita, tra yoga, meditazione, cooperazione, condivisione, agricoltura biologica e rispetto della natura, si propongono essere un’alternativa ad un mondo che sempre più ruota unicamente intorno ai beni materiali, come mostra la sequenza iniziale, incentrata su scene del recente tracollo economico.

Se da una parte è encomiabile la genuinità con cui gli abitanti della comunità mostrano alla macchina da presa la loro vita, e la disponibilità e l’impegno prestato alla realizzazione del progetto (oltre ad aver raccontato le proprie personali esperienze, Shivani Lucki, produttore esecutivo, ha dichiarato che tutti hanno lavorato duramente per mesi alla realizzazione dell’unica scena storica ricostruita, durata appena un minuto), dall’altra l’intreccio di realtà e finzione non trova il giusto equilibrio, non riescono a fondersi coerentemente. Manca, inoltre, l’immedesimazione con il personaggio di Juliet, con il quale lo spettatore avrebbe dovuto creare il legame più forte perché quello più simile a lui e alla sua realtà: inizialmente si sente, ma ad un certo punto è come se si bloccasse a causa del troppo veloce e repentino passaggio dal cinismo all’accettazione di una vita talmente diversa.

Alcune caratteristiche interessanti comunque ci sono: le interviste fatte ai veri abitanti della comunità dall’unico personaggio di finzione del film si mescolano a materiale d’archivio di varie epoche; in fase di doppiaggio si rinuncia a cambiare la voce a Swami Kriyananda, in virtù del rispetto e dell’impossibilità di trovarne un’altra con la stessa potenza. Questo non fa che impreziosire il lavoro di girato e il suo messaggio, ma per il resto si ha purtroppo l’impressione, a parte alcune scene di sincera commozione e presa di coscienza e momenti di profonda riflessione, di essere di fronte ad un prodotto un po’ troppo “promozionale”.

 

 

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