Blackhat: recensione film

BLACKHAT: BUCO NELL’ACQUA PER IL CYBER THRILLER DI MICHAEL MANN

locandina blackhatGENERE: thriller

DURATA: 135 minuti

USCITA IN SALA: 12 marzo 2015

VOTO: 2 su 5

Paradossale che dal 1999, anno di Matrix, si fosse indagata così poco la cibernetica, considerato il suo sviluppo esponenziale e la sua essenza legata alla nostra vita quotidiana. In ambito cinematografico i codici di cifratura della rete world wide web sono materia per pochi sceneggiatori, addirittura si utilizzano consulenze apposite per dare un senso reale a ciò che accade tutt’attorno a noi. C’è bisogno estremo di quegli hacker che hanno in mano il destino della connessione universale e, di conseguenza, di molte nostre attività giornaliere: i Blackhat.

Nick Hathaway è uno di loro, sta scontando 13 anni per frode con carte di credito clonate, quando viene richiamato sul campo da una task force congiunta tra Cina e Stati Uniti per tentare di rintracciare una banda di cyber-criminali che ha fatto esplodere una turbina in una centrale nucleare ad Hong Kong, il primo di una serie di attacchi mirati. Coinvolgendo la borsa mondiale, seminando il panico internazionale, il loro scopo è mirare ad un profitto senza precedenti. Hacker contro hacker, mente contro mente, il film di Michael Mann parte dal thriller di rete per diventare un action adrenalinico paradossale.

Sì, paradossale come la scelta del casting, a partire dal suo protagonista Chris Hemsworth, si fatica davvero a credere che un nerd laureato al MIT sia al contempo genio dell’informatica e modello di Abercrombie, con abilità da agente segreto e addestramento da karateca all’occorrenza. Non regge lui, non regge la telefonatissima storia d’amore borderless con la sorella dell’ex compagno di corso, non regge la sceneggiatura, a tratti imbarazzante per dichiarato qualunquismo. Si salvano, come nella maestria tecnica di Mann, solamente le scene di inseguimenti e le sparatorie, quel crudo realismo a cui ci ha ben abituato.

Tutto il resto fa acqua, si annaspa alla ricerca di un senso per una storia di base interessante, ma sviluppata così male che il lato urbano e un volutamente hard boilerd evapora come un soffio al primo retaggio scenografico. Luci artificiali a definire un senso di isolamento umano che la connessione digitale amplifica, circuito neurale opposto al vuoto dell’anima di protagonisti sbiaditi in una storia senza via di fuga. O forse la fuga da tutto appare come unica salvezza possibile. Lo sguardo dello spettatore si sposta su di loro freneticamente, alla ricerca di un contatto con la realtà che assume un contorno sempre meno plausibile.

Ben presto si perde il focus sul lato virtuale, scavato con minima profondità e mai del tutto spiegato. Si punta invece solo al lato emotivo a buon mercato, un piano partorito dalla testa dell’hacker eroe, taciturno e silenzioso, quanto letale e determinato. Se l’idea di partire da un singolo input per salvare il mondo doveva essere la chiave di lettura, allora Blackhat sbaglia tutti i componenti della scheda madre. Non basta avere un microchip ben funzionante per salvare un processore scadente.

 

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