The Gunman: recensione film


SEAN PENN È THE GUNMAN: FISICO, TANTA AZIONE E POCHE IDEE

locandina the gunmanGENERE: thriller d’azione

DURATA: 115 minuti

USCITA IN SALA: 7 maggio 2015

VOTO: 3 su 5

Congo, Londra, Madrid, Gibilterra. Un tour de force per arrivare alla resa dei conti pistola alla mano. Sean Penn tirato a lucido nonostante i suoi 54 anni è Jimmy Terrier, a metà strada tra un sicario e un agente speciale che lavora con agenzia private, in sintesi The Gunman. Il film di Pierre Morel si distingue subito per una vena violenta e un ritmo senza pause, azione nuda e cruda e belle scene di combattimento corpo a corpo.

Africa o Europa poco importa, la caccia all’uomo diventa affare di stato o di Stati, visto che viene coinvolta persino l’Interpol. Il terreno di gioco è intercontinentale, la sopravvivenza unica missione. Dopo aver freddato su commissione il ministro delle risorse minerarie in Congo, Terrier scompare dai radar come da missione, lasciando indietro la sua donna, Annie, un’efficace Jasmine Trinca. Dopo 8 anni ritorno per scavare pozzi insieme ad una ONG, ma qualcuno tenta di farlo fuori. L’ultimo tassello di un puzzle da eliminare.

Penn sceglie una storia torbida e spietata per il suo ritorno al cinema d’azione, The Gunman è un film esattamente a metà tra un thriller moderno e il cinema d’azione europeo, una deriva francese come il suo impianto registico, che non lascia tempo per fronzoli o make up, ma punta dritto al cuore dell’effetto emozionale. Buoni gli attori, qualcosa di sbagliato invece nelle scelte scenografiche e nel concept generale di una storia quasi futile rispetto alla bagarre in cui ci si ritrova coinvolti.

Fuori la “safety car”, ovvero il coraggio, ovvero il gioco al tutto per tutto, morti a palate solo per metterne a tacere uno che non si rassegna, che non vuole (giustamente) arrendersi, che lotta e si difende come un felino ferito. Per difendere ciò che più desidera al mondo e riscattarsi moralmente. Il film arriva al sodo, all’estrema sintesi di un concetto basilare, la redenzione attraverso il sacrificio o quasi. Non c’è perdono nei film di Morel, non c’è via di fuga, a volte non c’è nemmeno una coerenza nel delirio di follia omicida, ma ci si abitua presto.

Bisogna affrontare il male e guardarlo negli occhi senza paura, anche seduti in poltrona. Sean Penn si cimenta in una prova d’impegno fisico notevole, ma l’effetto surf diventa presto un boomerang. Non ci si annoia mai mentre lo seguiamo caricare armi e allacciarsi giubbotti kevlar, ma nemmeno restiamo abbindolati dall’assenza di originalità. Semplicemente siamo assuefatti all’hard boiled sullo schermo e tanto basta per uscire soddisfatti dal gioco al massacro. In fondo il concetto di base si fonda sull’assunto altruista: è per una buona causa che gli portiamo gli aiuti umanitari nel terzo mondo. Oppure no?

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