Mistress America: recensione film

L’ULTIMO LAVORO DI BAUMBACH ANCORA AMBIENTATO NELLA NEW YORK DI OGGI

Mistress America locandinaGENERE: commedia

DURATA: 84 minuti

USCITA IN SALA: 14 aprile 2016

VOTO: 3 su 5

Tracy è una diciottenne che si trasferisce a New York per frequentare il corso di letteratura al college. Solitaria, intelligente e piena di dubbi nei confronti di sé stessa, la ragazza affronta la vita universitaria con lo sguardo sempre rivolto agli altri, ammirando e invidiando ciò che non può essere e vivendo con un costante senso di inadeguatezza. Fino a quando la giovane non si mette in contatto con Brooke, trentenne esuberante che sta per divenire la sua sorellastra dal momento che il padre è sul punto di sposare la madre di Tracy. La sua vita subisce così un’improvvisa accelerazione, girando per la Grande Mela in locali tra i più cool, prendendo improbabili sbronze nei bar e dormendo in appartamenti arredati all’ultima moda. Una vita all’apparenza felice e soddisfacente quella di Brooke, capace di esercitare un enorme fascino sull’animo di Tracy senza però riuscire a ingannarla fino in fondo.

Noah Baumbach torna al cinema con questo suo Mistress America, con Greta Gerwig (già diretta dal regista) e Lola Kirke come convincenti interpreti principali. Un’umanità disagiata, inadeguata e fuori posto quella che trova spazio nelle visioni del cineasta americano. I personaggi che popolano questo universo sono tutti accomunati dalla stessa “malattia”, illustrata da Brooke a un’incredula Tracy: quella che fa alternare periodi di vuoto – emotivo ma non solo – a situazioni di iperattività e fermento, in cui il tentativo disperato di portare in qualche modo una svolta concreta alla propria esistenza denuncia in realtà un’impossibilità genetica a farlo, come se il fallimento fosse scritto nel proprio destino.

Questo malessere di fondo viene coperto dai personaggi (ma paradossalmente, in questo modo, evidenziato) con il vorticare impazzito dei dialoghi, dove i discorsi slegati tra loro, i grandi progetti e le iniziative annunciate pongono l’accento su questioni esistenziali molto più che se si discutesse apertamente di filosofia o dei grandi problemi della vita.

Baumbach tesse un film che trova un grandissimo elemento di forza nel ritmo con il quale è stato concepito. Il movimento narrativo, come una grande onda, conosce una fase iniziale e uno scemare alla fine inframmezzati da un momento centrale di massima potenza. Il nucleo della pellicola rappresenta infatti il punto più alto di riflessione e la parte in cui la messinscena cinematografica rivela tutta la sua straordinaria natura: nella casa candida e iper-moderna di Mamie-Claire (amica di Brooke), i personaggi di questo comic drama si inseguono e si evitano, si insultano e si elogiano, mostrando (finalmente in modo palese) tutte le loro nevrosi e paure.

Grazie a una notevole capacità nella direzione degli interpreti, alla rapidità dei dialoghi (con il rischio, evitato, di sovrapposizioni) e ai forti movimenti di macchina (con riprese a tratti circolari), queste scene corali fanno della loro natura cinematografica un cavallo di battaglia, rendendo lo spazio diegetico un palco teatrale e i presenti doppiamente attori, come se i personaggi da loro interpretati stessero a loro volta recitando un ruolo che altro non è che quello impersonato da ognuno sul palcoscenico della vita.

Ammiccando alle atmosfere tipiche del cinema di Woody Allen, questa Mistress America colpisce e conquista grazie a una comicità cerebrale e a un universo paradossale e folle, dove tutti sono fuori posto ma solamente alcuni hanno la lucidità di ammetterlo.

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