Tiger Boy: un corto di Gabriele Mainetti

DAL REGISTA (E NON SOLO) DI “LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT”

tiger boy posterIl 25 Febbraio arriva, finalmente, nelle sale italiane il film che ha entusiasmato la critica italiana, di solito piuttosto esigente, e vincitore morale dell’ultima Festa del Cinema di Roma. A Lo chiamavano Jeeg Robot, con Claudio Santamaria, Ilenia Pastorelli e Luca Marinelli, aspetta adesso la sfida più dura: l’impatto col grande pubblico. Forte dei consensi finora ricevuti comunque, un’altra stella è pronta a brillare insieme al film , in caso di riscontro positivo, ossia quella del suo creatore, il regista Gabriele Mainetti. Ma come è arrivato il filmaker/attore/compositore a dirigere il film italiano più chiacchierato del momento? Qual è stato il percorso che lo ha portato a realizzare la pellicola “supereroistica” che il nostro cinema aspettava? Tiger Boy è solo l’ultimo step (2012) prima del riuscito e pluri-acclamato salto al lungometraggio, ma allo stesso tempo è la sintesi di tutta la sua formazione e poetica artistica.

Matteo è un bambino di nove anni che costruisce una maschera identica a quella del suo mito: il wrestler di Corviale chiamato Il Tigre. Una maschera che Matteo finisce per indossare a tutte le ore del giorno, rifiutandosi categoricamente di togliersela, pur con le (inutili) preghiere della mamma e degli insegnanti. Ma ciò che nessuno sembra capire è che la sua inspiegabile risolutezza non è figlia di un infantile capriccio, ma una chiara richiesta d’aiuto.

Vincitore di 18 premi in diversi concorsi cinematografici e selezionato ufficialmente da oltre trenta festival, sia dentro che fuori la nazione (tra cui una sfiorata partecipazione agli Oscar del 2014, fermandosi alla short list dei dieci), in Tiger Boy si possono ritrovare diversi aspetti ricorrenti che hanno contribuito al successo di Jeeg Robot. Partendo da quelli tecnici, la casa produttrice è la stessa, la Goon Films, fondata dallo stesso Mainetti nel 2011; la musica anche qui è stata composta sempre dal regista (formatosi alla Saint Louise College of Music di Roma); la sceneggiatura è ancora una volta ad opera di Nicola Guaglianone (a cui si aggiungerà nel lungometraggio il fumettista Roberto Marchionni alias Menotti). Col medesimo team creativo, quindi, si riscontra lo stesso azzeccato gusto nel casting, cosa che in molti prodotti indipendenti viene purtroppo sottovalutata, in questo caso con la credibilissima prova di Francesco Foti, in primis, e Lidia Vitale. Tutte qualità, insomma, che hanno permesso ad altri colleghi di guadagnarsi l’epiteto di “autore”.

E come ogni autore che si rispetti, infatti, ritroviamo anche leitmotiv tematici e formali, basti vedere la scelta dell’ambientazione urbana, di periferia, nello specifico romana. Così come ritorna l’evasione di un’anima innocente in un mondo tormentato attraverso il mito di un eroe, qui però senza il “super” davanti, più comune al personaggio della Pastorelli in Jeeg Robot, che in quello del protagonista Santamaria. Ad avvicinare però Matteo ed Enzo Ceccotti è il disagio interiore indotto dalle terribili esperienze che hanno segnato le loro rispettive vite e quindi la voglia di rivalsa nei confronti dei propri tormenti. E la maschera funge per entrambi un significato catartico, nonché tocco di classe stilistico del regista, che attua in merito significative differenze nei finali dei due prodotti, in questo senso formalmente antitetiche. Per non “spoilerarvi” nulla, basta dire che il primo conclude il suo percorso vittorioso e libero, l’altro… beh, scopritelo pure il prossimo weekend al cinema!

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