Go With Me: recensione

ANTHONY HOPKINS A CACCIA DI RAY LIOTTA IN UN MODERNO WESTERN DALLE TINTE FOSCHE COME LA NEBBIA CHE LO AVVOLGE

go-with-me-posterGENERE: thriller
DURATA: 90 minuti
USCITA IN SALA: 13 ottobre 2016
VOTO: 3 su 5

In un paesino immerso tra i boschi al confine tra Stati Uniti e Canada, la giovane Lillian (Julia Stiles), tornata nella piccola città dopo la morte della madre, è oggetto delle attenzioni moleste che il prepotente Blackway (Ray Liotta) le rivolge continuamente. Dopo l’ennesimo atto intimidatorio subito (l’uccisione del suo gatto), la donna si rivolge allo sceriffo per porre fine alla questione, ma ha come risposta un netto rifiuto: persino gli esponenti delle forze dell’ordine hanno paura ad andare contro Blackway, l’uomo che da solo tiene in pugno tutta la comunità attraverso una fitta rete di malaffari, giro di droga e omicidi. Decisa a non demordere, Lillian (su consiglio dello sceriffo) si rivolge alla segheria del posto, luogo dove può trovare chi è capace di tener testa al delinquente locale. Fa così la conoscenza dell’anziano Lester (Anthony Hopkins) e del giovane Nate (Alexander Ludwig), disposti a darle una mano e ad affrontare Blackway. Il trio si mette quindi alla ricerca dell’uomo con l’obiettivo di mettere la parola fine alla faccenda, pronto ad andare fino in fondo per raggiungere l’obiettivo.

Un western moderno che si immerge in una fitta nebbia per riemergerne carico di gelide atmosfere: questo è Go With Me (Blackway), diretto da Daniel Alfredson, regista degli ultimi due capitoli della Trilogia Millennium.
In un mondo di corrotti, dove chi difende la giustizia piega il capo di fronte al volere dei prepotenti, sono i semplici cittadini a dover imbracciare le armi (metaforicamente e letteralmente) per poter salvaguardare i propri inalienabili diritti e per ristabilire il giusto ordine. Nel tentativo di riportare in città un’etica che viene calpestata da chi fa della violenza l’unico linguaggio che conta, però, i “buoni” cadono nella trappola di stravolgerne il senso comune, delineandone a loro volta uno proprio, dalla positività dubbia e opinabile, stagliatosi però come l’unico possibile.

Il terzetto composto da vittime si tramuta così in un trio di cacciatori alla ricerca del cattivo divenuto preda. Ray Liotta dà vita a uno spietato villain reso ancora più temibile dal suo essere in absentia: per tutta la pellicola, infatti, l’aura di terrore attorno al suo personaggio è accresciuta dalle parole pronunciate su di lui più che dalla sua figura vera e propria, che si palesa solo in flashback rivelatori e nel finale risolutore.

In questo thriller dalle tinte fosche e dall’atmosfera densa e glaciale, quasi da congelare il respiro, c’è però una grande pecca: la tensione accumulata nel corso della pellicola, accresciuta di volta in volta da ogni tassello aggiunto dai vari personaggi, finisce con il dissipare tutta la sua carica in potenza. Non sempre, infatti, ciò che viene rivelato sui protagonisti si mostra sufficiente a motivare alcune delle loro azioni, che appaiono così senza un plausibile movente e senza una giustificabile origine. In questo modo, il climax drammatico trova una sua conclusione senza aver mai davvero raggiunto il proprio apice.

Nel complesso, però, Go With Me di Alfredson – tratto dall’omonimo romanzo di Castle Freeman Jr. – si afferma come un’opera che setaccia sapientemente motivi e stilemi del cinema americano di genere, rendendo contemporanee dinamiche già note e stabilendo connessioni con un passato che appare più attuale che mai. La nebbia, che apre e che chiude il film come in una sorta di ciclico sipario, avvolge nell’omertà una verità che tutti sanno ma che nessuno conosce davvero, rendendo la lotta tra bene e male una questione privata su cui è quasi meglio stendere un velo.

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