Final Portrait – L’arte di essere amici: recensione

LA STORIA DI ALBERTO GIACOMETTI RACCONTATA DA STANLEY TUCCI IN FINAL PORTRAIT TRAE TUTTA LA SUA FORZA DALL’INTERPRETAZIONE DI GEOFFREY RUSH

final portrait locandinaGENERE: biopic

DURATA: 90 minuti

USCITA IN SALA: 8 febbraio 2017

VOTO: 3 su 5

Negli ultimi anni, attraverso esposizioni in tutto il mondo, si sta manifestando un crescente interesse verso le opere di un artista già largamente conosciuto e apprezzato per il suo stile del “non finito”. Ora, grazie a a Stanley Tucci che ha scritto e diretto Final Portrait, Alberto Giacometti arriva anche al cinema dall’8 febbraio.

Tucci, alla sua quinta volta dietro la macchina da presa, porta in sala un lavoro davvero ben confezionato tecnicamente, che grazie ad alcune accortezze tecniche riesce a creare un ambiente in cui lo spettatore si sente presente e non “al di là dello schermo”. Per questo il regista sceglie la macchina a spalla, che da un seppur minimo senso di movimento a personaggi prevalentemente statici, e predilige i dettagli, che si identificano come non solo lo scrutare dell’artista verso il suo modello, ma anche viceversa.

Siamo negli anni Sessanta a Parigi, e Alberto Giacometti chiede all’amico James Lord di posare per lui, che con entusiasmo e curiosità accetta ben volentieri. Ma più il tempo passa e più l’opera sembra allontanarsi dalla sua compiutezza. Così Giacometti, arrabbiato e dubbioso, nel pieno di una fase depressiva, cancella e ricomincia ripetutamente, mentre James si altalena tra noia, svilimento e impazienza, senza trovare il coraggio di andare a prendere un aereo di cui più volte cambia la prenotazione. I due si guardano, si scrutano, si studiano. Ogni giorno, per diciotto giorni, si ritrovano nel grigio studio dell’artista, passeggiano, fumano, si concedono un pasto veloce o un bicchiere di vino. Intorno a loro ruotano poche altre figure, tutte legate a Giacometti: il fratello Diego, la moglie Annette e l’amante Caroline.

Final portrait è un biopic non intenzionato a ripercorrere sterilmente date e tappe della vita dell’artista: qui, infatti, si decide di lasciar parlare un legame di amicizia per tratteggiare l’ultima fase della vita di Giacometti e soprattutto capire come si svolgeva il suo lavoro. Ispirandosi al libro di James Lord (interpretato da Armie Hammer) dal titolo A Giacometti Portrait, si parte da questa esperienza personale per estrapolare la consueta metodica di lavoro di Giacometti, fatta di silenzi e scatti di ira, dubbi, perplessità e insicurezza.

Geoffrey Rush, oltre all’incredibile somiglianza con il vero Alberto Giacometti, assolutamente a suo agio con il pennello in mano, regala un’interpretazione intensa, per la quale ha studiato e effettuato un lavoro di ricerca per ben due anni.

Final portrait ha dei momenti divertenti davvero riusciti, la musica di Evan Lurie rimane piacevolmente sullo sfondo senza mai prendere il sopravvento sulla scena, la fotografia curata da Landy Cohen sembra rispecchiare colori, luci e toni delle opere di Giacometti. Il film è molto piacevole agli occhi, e attraverso il ripetersi delle azioni e dei momenti, fra loro simili nel corso dei giorni, riproduce l’atto di “fare e disfare” la tela, lasciando meno spazio all’approfondimento del legame fra i due. Tutto questo ha naturalmente un senso, ma lo spettatore che non riesce a cogliere questa sfumatura potrebbe sentirsi un po’ come James Lord dall’altra parte del cavalletto.

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