Matrix Resurrections: recensione

MATRIX RESURRECTIONS: DOPO TANTA ATTESA, IL FILM SI RIVELA UN FRULLATO DI VECCHIE IDEE, SENZA TROPPI SPUNTI

DURATA: 148 minuti

USCITA: 1 gennaio 2022

VOTO: 2 su 5

MATRIX RESURRECTIONSCi siamo arresi, le macchine hanno vinto. Siamo diventati così dipendenti dalle macchine che non ci proviamo nemmeno più a staccarci. Abbiamo tutti, come umanità, preso la pillola blu. Con consapevolezza e rassegnazione. Questo sembra voler dirci il film. Non è più una questione di vivere in Matrix o nella realtà, non è più una scelta: abbiamo accettato Matrix. Ma fare la morale, a Lana Wachowski non interessa più. O forse non le è mai interessata.

Gran parte del film è metacinema, sullo stile di Nightmare 7 per intenderci, ma senza ritegno e senza vergogna. Per la trama Neo (Keanu Reeves) è diventato progettatore di videogame e ha basato la sua creazione di più grande successo sull’esperienza raccontata nei primi tre film. Questo comporta che i personaggi siano consapevoli, tanto quanto gli spettatori, che gli eventi accaduti in precedenza siano frutto di fantasia. Per noi un film, per loro un videogame. Ma poiché Neo è sempre Neo, lui gli eventi di Matrix li ha vissuti veramente e questa è solo un’altra simulazione.

La scelta, questa sì, di virare sul meta è una decisione che viene difesa fino alla fine. Profondamente esagerato, la regista  calca talmente la mano sul riutilizzo delle sequenze dei precedenti capitoli, in particolar modo il primo, che queste vengono riproposte non solo in forma di flashback a favore dello spettatore, ma diventano parte integrante della vita degli stessi personaggi. Ad essere una minestra riscaldata il passo è breve. Si ricicla troppo, pensando forse di far contenti i fan, troppo spazio dedicato al gatto del deja-vu, troppo spazio dedicato a Neo che ferma i proiettili. Come se non sapesse fare altro. Gli stessi riferimenti vengono ripetuti in continuazione. C’è un fraintendimento fondamentale di cosa è, è stato e rappresenta Matrix.

Matrix non è mai stato solo il bullet time. Anche se tutti ricordano solo quello. Eppure ad oggi sembra essere ridotto solo a quello. Che l’aspetto filosofale fosse andato a farsi benedire si era già visto con gli altri sequel, ma qui c’è proprio la volontà di farsi sberleffo di quello che è stato. Alla fine si riduce tutto a quanto seriamente si prenda la trama. Ma noi ci sentiamo di difendere la libertà di prendere seriamente anche una storia di fantascienza. Soprattutto quando la metafora allude ad una forma di futuro plausibile.

Dalla frustrazione si cominciano a notare anche dettagli sui quali altrimenti si sorvolerebbe. Ad esempio l’esasperato uso di effetti CGI, così palese (in certe scene d’azione i personaggi sono ricreati al computer), da dubitarne la buona fede.

Visto i tempi in cui viviamo, poi, si è sentita la necessità di un cambio radicale su chi debba essere il protagonista della storia. La presa di coscienza delle donne permea tutta la storia. Trinity (Carrie-Anne Moss) non è solo la chiave, ma anche l’unica speranza di salvezza. Il che sarebbe stato più che accettabile come cuore di un quarto capitolo, a patto che le fondamenta della storia fossero state solide.

 

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