Locarno 66 – L’entrage couleur des larmes de ton corps: recensione film (concorso internazionale)

DUE REGISTI PER UN NOIR PRIVO DI SENSO CHE DA ADITO SOLO A PERIPEZIE STILISTICHE SARIFICANDO IRRIMEDIABILMENTE LA  SCENEGGIATURA

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Un uomo torna a casa dopo un viaggio di lavoro e non trova più nessuna traccia della moglie: i messaggi in segreteria fanno presagire che la donna sia scomparsa da giorni, l’appartamento  chiuso da dentro e la situazione è strana quanto l’investigatore che viene messo sul caso. Questo racconta, o meglio, è questo che dovrebbe raccontarese solo i due registi, Helen Cattet e Bruno Forzani, non avessero sacrificato la storia che avrebbero voluto mettere in scena per una serie di peripezie registiche, anche sofisticate e interessanti da un punto di vista estetico, talmente eccessive, da un certo momento in poi, da mettere a repentaglio l’intero senso del lungometraggio.

Indubbia la bravura degli attori che come marionette sono funzionali non al racconto ma alla follia dei due cineasti che oltre a mettere a dura prova la pazienza, e lo stomaco, dello spettatore mettono alla prova gli interpreti che la superano brillantemente.

Con un inizio e una fine che sono l’unica parte chiara e sensata dell’intero lungometraggio, nonostante la banalità del risvolto tutta la sceneggiatura che sta nel mezzo, o dovrebbe starci per amor di logica quantomeno, è mangiata da immagini, molto spesso caleidoscopiche  e anche eleganti e visionarie con evidenti riferimenti ad Argento e Lynch, che non sono altro che un egocentrico esercizio di stile dei due registi che non tiene affatto conto di nessun tipo di pubblico e che è pregno di una violenza in molti casi gratuita in una sperimentazione eccessiva, seppur in alcuni punti apprezzabile, che però non porta a nulla.

La speranza è che almeno Cattet e Forzani, che vantano  l’inserimento di Amer  il loro primo lungometraggio – tra i migliori del decennio secondo Quentin Tarantino, si siano divertiti a girare questa serie di immagini che nauseano chi le vede senza avere mai la dignità neanche di sfociare nel grottesco o nel trash ma che rimangono sul filo del più mediocre nulla perché davvero lo spettatore non prova alcuna emozione innanzi al loro lavoro: rimane solo allibito.

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