I corpi estranei: recensione film

MIRKO LOCATELLI DIRIGE UNA STORIA STRUGGENTE CHE INCIAMPA SPESSO NONOSTANTE LA FORTE PRESENZA SCENICA DI TIMI

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GENERE: drammatico

DATA DI USCITA:  3 aprile

DURATA: 98′

VOTO: 2,5 su 5

Attendere è il verbo transitivo che attraversa le stanze degli ospedali e che tocca i pazienti ma soprattutto i loro cari in quel luogo di scienza ma anche di magia, la magia di sospendere il tempo, di fermarlo dilatando all’inverosimile minuti e ore mentre si aspettano notizie dagli angeli in camice bianco che tra le mani hanno il potere di tagliare definitivamente a metà o suturare, risanando l’anima, la speranza come la pelle.

Antonio è un padre e il suo piccolo Pietro è stato colpito da un tumore, fortunatamente operabile. Antonio ha la possibilità rara di poter stare accanto a suo figlio notte e giorno e insieme a lui, in quelle camere sterili anche di gioia, sono tante le vite sospese nella paura di perdere la battaglia contro il grande male. Tra i compagni di sventura di Antonio c’è una famiglia di tunisini vittime del pregiudizio del protagonista, il quale inizialmente è infastidito dalla loro presenza e poi scende a patti con la sua curiosità scoprendo dei buoni complici nel male che la vita ha loro comunemente riservato.

Filippo Timi regge sulle sue spalle per intero I corpi estranei, pellicola scandita gesti e tempi lenti e da dialoghi/monologhi telefonici interminabili in un’ambientazione al di fuori della realtà. Stanco, rabbioso, tenero l’attore finalmente ha preso parte a un lavoro che sa mettere in luce le sue capacità attoriali di notevole spessore drammatico: i duetti col piccolissimo Pietro sono reali e teneri e hanno come complice una regia che sottolinea l’unione tra un padre e un figlio mai forte come quando il secondo è in difficoltà.

La bravura di Timi, la fotografia e la direzione sempre funzionale comunque non bastano a salvare in toto la pellicola non priva di lacune narrative a causa dell’imponenza delle due tematiche trattate: l’idea di unire la storia della malattia di un figlio e la storia di un’integrazione rende il lavoro lacunoso in troppi punti  e scema il pathos della story line principale – e emotivamente più coinvolgente – totalmente basata sui gesti introspettivi di Antonio che, come una fotografia fatta a un soggetto in movimento, perdono fuoco troppo spesso.

È un peccato che il regista Mirko Locatelli abbia voluto strafare: nelle mani aveva tutte le carte per poter dar vita a un dramma sincero, onesto e per nulla retorico in grado di descrivere la paternità in maniera, non nuova, ma quantomeno sincera e inedita. Parafrasando una vecchia pubblicità: Locatelli, non sempre, fa le cose per bene.

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