Humandroid: recensione film

NEILL BLOMKAMP TORNA AL CINEMA CON UNA “CRUDA” FAVOLA SCI-FI

Humandroid LocandinaGENERE: Fantascienza

DURATA: 120 minuti

USCITA IN SALA: 9 Aprile

VOTO: 4 su 5

Nato come cortometraggio, dal titolo Tetra Vaal (2004), scritto e diretto dallo stesso Neill Blomkamp, Humandroid è l’ultima fatica del regista sudafricano, già autore del fenomeno District 9 e dell’altrettanto ottimo Elysium. L’ormai “vecchio” pupillo di Peter Jackson, continua il suo percorso di analisi e messa in scena delle crudeltà e delle contraddizioni dell’essere umano, con l’ausilio tutto personale del genere sci-fi, riavvicinandosi, in questo, più al film d’esordio che alla pura avventura fantascientifica con Matt Damon protagonista. Dopo gli “alieni-gamberoni” e le armature high-tech dalla infinite potenzialità, tocca al “robot-bambino” Chappie, che in originale dà il titolo alla pellicola.

Come in tutta la sua, corta, filmografia lo scenario in cui la storia prende vita è quello di un ipotetico futuro distopico, dove, a proteggere i cittadini e mantenere l’ordine del paese, troviamo, appunto, degli androidi. A progettare le macchine è Deon Wilson, che lavora alla Compagnia Tetravall (esatto, come il corto), produttrice di armi e distributrice degli stessi robot al corpo di polizia, diretto da Michelle Bradley. Al rigido e freddo superiore Deon presenta il suo progetto di un software che permetta agli androidi di poter pensare e agire come un essere umano, trovandosi davanti, però, un secco rifiuto. Il ragazzo decide così di sorpassare le gerarchie e provare comunque il suo esperimento, incrociando intanto la strada dei criminali “Ninja” e Yolandi, che faranno prendere alla trama una prima svolta inaspettata, appropriandosi del robot a cui danno, appunto, il nome di Chappie. Sotto ricatto, Deon è costretto a cederglielo, accordandosi comunque sulla programmazione e sull’istruzione dello “humandroid” appena nato. Intanto le azioni di Deon sono monitorate dal geloso rivale e collega Vincent Moore, il quale ha inclinazioni decisamente più militari e meno scientifiche, artefice della svolta decisiva per la rocambolesca, intensa e spettacolare parte finale. Tutti eventi che porteranno l’innocente, in principio, Chappie, a conoscere il mondo, apprendendone le gioie e i dolori, tra amore, odio e brutale e ingiustificata violenza.

Dev Patel, che dal pluripremiato The Millionaire di Danny Boyle non era sparito dalla circolazione, ma quasi, interpreta il ruolo dell’ingegnere Deon, padre “biologico” del robot. L’attore possiede perfettamente il cosiddetto “physique du role” adatto alla parte, rendendo la sua prova oltremodo convincente. A Shartlo Colpley, invece, sicuramente il compito più difficile, dovendo prestare corpo e voce al motion capture che anima il protagonista Chappie sullo schermo. La particolare e affascinante tecnica cinematografica ha più d’un precedente illustre, dal Gollum del Signore degli Anelli ai Na’vi di Avatar, a cui si aggiunge, ora, quella di una macchina dalle sembianze “adulte”, rinchiusa in una coscienza completamente infantile, caratterizzata da una crescita fulminea e procedurale per l’intero svolgersi della pellicola. Copley è una presenza costante nei lavori di Blomkamp, apparendo in tutti i suoi precedenti film. I due, non a caso, sono amici di vecchia data, e questo può spiegare perché il regista lo abbia scelto per un ruolo tanto delicato.

Hugh Jackman (Vincent) e Sigourney Weaver (Michelle) rappresentano, forse, la note più dolente della pellicola, ovvero quella più canonica e fin troppo stereotipata. Esattamente come succedeva al personaggio di Jodie Foster in Elysium, impersonano gli ostacoli burocratici e autoritari per l’eroe protagonista, privi di una benché minima introspezione e dalle battute praticamente già scritte, quasi che Blomkamp voglia riservare i ruoli più “tradizionali” alle star di Hollywood scelte per i suoi lavori.

Le vere sorprese, così, diventano quelle di Watkin Tudor Jones e Yolandi Visser, sulla carta i più inesperti, dato che, nella vita, sono musicisti, leader del gruppo sudafricano zef rap-rave Die Antwood. Il soprannome “Ninja”, infatti, è anche lo pseudonimo con il quale è conosciuto il rapper Jones. Allo stesso modo la compagna, Yolandi, mantiene lo stesso nome nella pellicola. Eppure, sono anche coloro i quali, insieme a Chappie, riescono ad emozionare di più il pubblico, soprattutto grazie all’incredibile e completamente inaspettato sviluppo degli stessi background di base dei personaggi, che passano dall’essere duri criminali incalliti a “genitori” amorevoli e, sul finale, perfino eroici.

Percorso simile è quello dell’intero film, che si presenta, per almeno metà della sua durata, come una favola sci-fi piuttosto tradizionale, addirittura poco originale, derivante dall’enorme cultura del genere cinematografico condivisa dal suo regista, che oramai ben conosciamo. A distanza di un anno dal film d’animazione della Disney, e premio Oscar nell’ultima edizione, Big Hero 6, la sensazione di “deja vu”. in qualche modo, può risultare piuttosto forte. Ma, da un preciso punto in avanti, la storia evolve, intraprendendo una strada mai vista prima, dimostrando tutto il coraggio di cui Blomkamp ha fatto sfoggio in più d’una occasione. Una sorprendente piega condita da un ritmo serrato e da un sapiente quanto consapevole utilizzo degli effetti speciali, in un esaltante tutt’uno con la macchina da presa.

Il filmaker sudafricano, che ha scritto la sceneggiatura insieme a sua moglie Terri Tatchell, come già accaduto tra l’altro in District 9, ambienta ancora una volta l’azione a Johannesburg, città chiave della sua filmografia. Un’alternativa pesante e quasi “straniante”, se si pensa al monopolio New York-centrico dell’immaginario comune ed internazionale, specialmente quando si parla di catastrofi fantascientifiche o invasioni aliene. Al solito, non mancano le inclinazioni politiche e morali del caso, sempre sottili e mai invasive. Intanto, visto il finale, piuttosto aperto, non sorprendono le dichiarazioni di Blomkamp sulla produzione di possibili sequel in futuro, ancora in una fase esclusivamente embrionale (ovvero, solo “nella sua testa”, per ora). Data la caratura della sua ennesima perla, non possiamo che restare in attesa, speranzosi, di positivi ed eventuali sviluppi.

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