Fellini: viaggio ai confini del tempo

VIAGGIO AI CONFINI DEL TEMPO PER SCOPRIRE LA DIFFERENZA TRA CINEMA E FUMETTO INSIEME AI LAVORI DEL MAESTRO DEL CINEMA FEDERICO FELLINI

Fellini Qualche sera fa, vittima di un assopimento cerebrale da “zapping” fra una polemica per le “dichiarazioni shock” di Megan e Harry, il “fallimento della Juve” e forse di tutti noi con “Live – Non è la D’urso”, ho deciso di impegnare il mio tempo in un film che non vedevo da troppo: I Vitelloni dell’eterno Federico Fellini.

Immenso in tutte le sue sfaccettature, straordinario genio creativo che non ha solo segnato un’epoca, ma il cinema italiano tutto, per come il mondo stesso lo conosce oggigiorno. Orgoglio nazionale che come tutti i “magnifici” vanta le due facce di una stessa medaglia di innegabile valore: odiato e amato, idolatrato e incompreso, idealizzato e vanificato.

Provando ad andare oltre la semplice biografia di una vita che si potrebbe passare a raccontare e raccontare ancora, vorrei soffermarmi oggi su una curiosità che forse non tutti sanno.

Prima del Fellini regista, prima dell’amore sconfinato e consacrato per il cinema, Federico era un bambino innamorato dei disegni. Immagini che lui stesso passava il tempo a dipingere, creare, inventare, appoggiato ai vetri della finestra della cameretta da letto. Il suo primo contatto con il mondo immaginato infatti, lo ritrae così: bambino che legge “Il corriere dei Piccoli” ricalcando i personaggi delle immagini che sceglieva di rappresentare. Dalla finestrella di casa sua al cinema il passo è “relativamente” breve.

Di seguito vorremmo riportare un’intervista a Fellini, rilasciata a Renato Pallavicini e pubblicata su l’“Unità” del 1992. Il 2020 ha celebrato i cent’anni dalla nascita del Maestro che prima di essere un regista è stato un disegnatore e dalla sua personalissima idea rispetto a come i mondi di cinema e fumetti siano come il sole e la luna. Uno non potrebbe esistere senza l’altra e viceversa, ma insieme non possono stare.

Il mio amore per il fumetto si perde nella notte dei tempi. È stato il primo contatto con un mondo immaginato che si esprimeva con le matite, con le penne, con i colori: qualche cosa che non aveva a che fare con la scuola, con la chiesa, con la famiglia. Mi ricordo che una data festosa della settimana era proprio la domenica, quando papà, tornando dalla stazione dove c’era l’edicola più fornita di Rimini, ci portava il Corriere dei Piccoli. Anche i personaggi di quel foglio colorato non avevano niente a che fare con il mondo che ci circondava: con la cameriera che stava in casa, col nonno malato, col vicino. Però erano altrettanto veri del bidello o dell’arciprete. Tanto che, alle persone reali poi, affibbiavamo proprio i soprannomi di quei personaggi. Così l’arciprete diventava Padron Ciccio, quello che aveva una mula cattivissima, la Checca, che stampava i ferri da cavallo nel sedere di chi scalciava. Oppure il vicino di casa, che mia mamma sapendolo un po’ scapestrato, tiratardi e qualche volta un po’ alticcio, aveva chiamato Arcibaldo, come il personaggio creato da Geo McManus. Lui si arrabbiava molto e noi ragazzini gli correvamo appresso per sfotterlo gridandogli Arcibaldo, Arcibaldo!»

Il fumetto”, continua Fellini “ha rappresentato nella psicologia e nell’immaginazione di intere generazioni il contatto con la fantasia, il sorriso, l’allegria. Ma anche un aiuto, un conforto a quel tanto di obbligato che rendeva la vita di noi ragazzetti, piuttosto pesante, mal digeribile: la scuola, la palestra, le processioni, la messa alla domenica. Quindi una funzione straordinaria non solo per la formazione della fantasia, ma anche un aiuto psicologico come potevano darlo la letteratura, la poesia o l’arte. Il fumetto, tradotto nella dimensione dell’infanzia ha avuto il merito, dunque, di irrobustire l’immaginazione e di favorire un discorso critico verso gli adulti con l’aiuto dello scherzo e dell’ironia”.

«È un ricordo fatto di gratitudine”, continua il regista. “Devo a questa visione caricaturale la mia formazione, la mia inclinazione, un modo di vedere le cose che, a parte una propensione naturale a cogliere gli aspetti buffi delle persone, sono stati favoriti dalle tavole del Corriere dei Piccoli. Quelle pagine le mettevo sul vetro e in controluce tentavo di ricopiarle, lo facevamo tutti. Mi affascinava il modo, tipico del fumetto, di inquadrare le immagini in una cornice, la sua scansione narrativa, il salto di immagine da un quadretto all’altro, l’affidare al lettore il compito di colmare i vuoti, di rendere dinamica la staticità. Penso che il cinema, specialmente il primo cinema muto, quello delle comiche di Chaplin, Harry Langdon, Buster Keaton, Fatty, Max Linder, Ben Turpin debba molto ai fumetti. Penso a certe tavole di Krazy Kat di Harriman. In fondo quei primi film sono dei fumetti animati, e tutto si richiama alla tecnica del fumetto: dalle prospettive, al taglio dell’inquadratura, quel taglio particolare che si ferma alla caviglia e che prese il nome di “piano americano”.

Anche se Fellini non si è mai definito “disegnatore”, bisognerebbe andarsi a vedere tutti, almeno una volta, le sue creazioni.

Finito il liceo”, ricorda il regista, “già a Rimini collaboravo con disegnetti alla Domenica del Corriere e ad alcuni giornaletti locali. Ma soprattutto, come tanti, ero affascinato dal Marc’Aurelio che arrivava il mercoledì e il sabato a Rimini. Era un giornale contestatissimo dal prete. Mi ricordo che una volta, durante il sermone domenicale, tirò fuori dal pulpito, come un prestigiatore, un foglio che era poi il Marc’Aurelio e disse: “So che si continua a leggere questo giornalaccio. Adesso vi faccio vedere io che cosa si deve fare”. Ci fu un momento di sospensione perché non si capiva bene che cosa volesse mostrarci. Poi Don Balosa (in realtà si chiamava Baravelli, ma lo chiamavamo Don Balosa che in romagnolo vuol dire castagna bollita, per via delle sue guancione color seppia) lo strappò con le sue grandi manone e dopo un lungo silenzio, ne fece una gran palla che, cosa insolita per un prete sul pulpito, colpì con un pugno e fece rotolare tra i banchi”.

Concludendo, con una visione se vogliamo estremamente romantica dell’arte di per sé:

Il cinema diventa sempre più un’impresa che appartiene al passato. E siccome mi piace lavorare, fantasticare, raccontare storie ho voluto provare questa esperienza. Cinema e fumetto, anche se strettamente legati sono diversi: un film ti succhia dentro, ti impedisce di pensare, un fumetto è come un arresto di tempo, un po’ spettrale, da seduta spiritica. Vuole un altro rapporto con il lettore, usa un altro modo d’incantamento che ha il fascino mortuario dell’immobilità. Ecco perché i film tratti dai fumetti non riescono mai. No, fumetto e cinema sono due degustazioni inconciliabili».