Le streghe di salem: recensione film

SIAMO DAVANTI AL POSSIBILE CAPOLAVORO HORROR DI ROB ZOMBIE 

GENERE: Horror

USCITA: 24 aprile 2013

Si ha una sensazione strana quando si esce dalla sala dopo un film del genere. Le viscere continuano a girare, ancora scosse dal disgusto che si è sentito per quasi tutta la visione, ma anche il cervello sta lì a rimuginare, come se l’opera in questione non fosse rivolta al mero intrattenimento dello spettatore. D’altro canto ogni volta che esce un film di Rob Zombie c’è una grande attesa da parte dei fan tale da rendere ogni sua pellicola un evento. Si spera però che con Le streghe di Salem, forse il più maturo dei film del regista metallaro, la cerchia dei suoi appassionati si allarghi a dismisura.

Heidi è una Dj di Salem che passa le sue giornate tra il lavoro, l’alcool e la musica. Un giorno un disco misterioso arriva nel suo studio. Da lì la povera ragazza finirà in un giro di allucinazioni e pericoli reali che la porteranno in una dimensione vicina a quella leggendaria del ‘600, quando le streghe di Salem minacciavano la città…

Tremate, tremate, le streghe son tornate. In effetti era da tempi che non le si vedeva così cattive. Rob Zombie, da sempre abituato a un horror sporco e grezzo che si rifà alle atmosfere dei classici anni ’70, qui supera se stesso riuscendo bene ad alternare sogno e realtà in un incubo cinematografico che a tratti sembra prendere come riferimento più il cinema di Lynch che quello di Craven.

Fin dal primo momento in cui vediamo la noiosa routine della protagonista, interpretata dalla moglie e musa del regista Sheri Moon Zombie, siamo sempre con lei e man mano che le cose si fanno peggiori lo spettatore non puo’ che sudare freddo, sperando in una dolce risoluzione delle cose. L’attrice riesce bene a restituire il disagio della protagonista che, per il tipo di difficoltà incontrate, non puo’ che far ricordare la Mia Farrow di Rosemary’s Baby, capolavoro a cui Zombie guarda con affettuoso omaggio, cercando di coniugare le atmosfere polanskiane con un piglio all’italiana, figlio delle visioni dei classici di Mario Bava e Dario Argento.

In parole povere ci troviamo a un film squisitamente disgustoso che sa introdurci nelle paranoie di un innocente offrendo scene allucinanti tra le più impressionanti dell’horror recente, oggi quasi plastificato e più incentrato su un’estetizzazione del terrore fine a se stessa che a un’effettiva ricerca delle paure inconsce dello spettatore. Magari la parte finale, dal montaggio più simile a un videoclip che a un’opera cinematografica, può far storcere il naso ad alcuni, ma si tratta di una ricerca estetica coraggiosa che ci fa pensare che Rob Zombie sia diventato un autore a tutto tondo, capace di dar corpo ai nostri incubi come ormai più nessuno sa fare. 

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