Tir: intervista ad Alberto Fasulo vincitore del Roma Film Fest

“POCHI SOLDI A DISPOSIZIONE MA DALLA NOSTRA C’ERANO PASSIONE E VOLONTÀ”

Mi interessava raccontare questa solitudine e esplorare i limiti di resistenza di una persona che ha compiuto una scelta lavorativa più o meno consapevole e adesso ne paga le conseguenze, vivendola fino in fondo ammette Alberto Fasulo parlando del suo docu-film Tir, vincitore del Festival Internazionale del Cinema di Roma dove, come a Venezia, non è stato un lungometraggio di finzione ad avere la meglio ma la realtà trasportata al cinema.

La realtà che il cineasta racconta è quella di Branko, un ex insegnate di Rijeka che da qualche mese è stato assunto come camionista in un’azienda di trasporti italiana è quella che Fasulo ha scelto di raccontare a 5 anni da Rumore Bianco:

Alberto, secondo lei da cosa è stata colpita la giuria che l’ha portata a vincere il Marc’Aurelio d’oro?

Non lo so. Probabilmente il sudore che traspirava in quella cabina di camion. Io ho fatto solo qualcosa di istintivo e mi sono anche preso il rischio di lavorare con un attore come Branko. Tir è un film che mi ha cambiato la vita, un atto di coraggio durato cinque anni in cui mi sono preso i miei rischi. Una cosa curiosa è che  a fine film non riuscivo più a dormire negli spazi aperti e preferivo tornare nella cabina. Ora invece troverei insopportabile dormirci.

Dopo Rumore Bianco dove è il fiume a portare con se la storia, in Tir a fare da traino è la strada. In questo film rispetto al citato Rumore Bianco c’è più sceneggiatura. Pensi che questo abbia in qualche modo bloccato il tuo respiro documentaristico?

Assolutamente no. La sceneggiatura ha dato forza al film. All’inizio ero decisamente ansioso ma dopo una sola settimana di riprese con l’attore protagonista  Branko Završan è nata una forte empatia che mi ha aiutato molto. Abbiamo lavorato nel confine tra documentario e finzione, e dopo quattro anni di intenso lavoro abbiamo “viaggiato” assieme al film.

Nei titoli di coda tra i molti ringraziamenti si vedono quelli rivolti a Luca Bigazzi e Vittorio Morini. Anche loro hanno contribuito al film? Quanto tempo hai impiegato a girarlo e le riprese le hai realizzate tu da solo oppure ti sei avvalso dell’aiuto di qualcuno?

Luca e Vittorio sono parte integrante del mio film, in questi cinque anni hanno avuto tutto il tempo di intervenire come ha fatto ad esempio Luca contribuendo alla color correction finale. Ciò che da me e credo anche dagli altri è stato percepito è un forte lavoro di squadra, dove tutti hanno contribuito e sono stati dietro al mio desiderio morboso di realizzare questo film. L’aspetto più importante è sicuramente il contenuto e non la forma, anche nel momento in cui Branko e Maki si scambiano le borse c’è più finzione che realtà ma non mi importava molto. Ciò che conta è che lo spettatore abbia tutto il tempo di pensare al contenuto, a che cosa vuol dire crisi economica, crisi etica. Le riprese le ho realizzate da solo perché avevo bisogno di entrare in contatto col film e non potevo dire a un operatore “cambia lente, fai questo, fai quest’altro”. La fisicità è molto importante: entrando dentro la cabina del tir creo una vera relazione.

Secondo lei nell’era del digitale ha ancora senso parlare di documentario, film o finzione? E come si pone rispetto alla dichiarazione fatta da John Landis secondo il quale oggi non ci sono più scuse plausibili perché per fare un film bastano cinquecento dollari?

Abbiamo avuto a disposizione pochi soldi, ma dalla nostra avevamo passione e volontà. Questo vuol dire che spesso le persone possono supplire alla mancanza di fondi e questo mi fa sentire molto fortunato. Grazie anche all’apertura di Rai Cinema a film di questo tipo abbiamo assistito a una crescita collettiva importante, anche se qualcuno ci ha detto che eravamo molto vicini all’Albania per le simili difficoltà produttive e realizzative.

È stata una scelta propriamente voluta la quasi totale assenza di colonna sonora?

Non abbiamo mai voluto indurre emozioni allo spettatore ma al contrario, farlo entrare nella cabina assieme al protagonista, rispettando la sua libertà di mettersi in contatto con il suo mondo.

 

 

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