Cannes 67 – Adieu au langage: recensione film (in concorso)

ADIEU AU LANGAGE È UN’OPERA FOLLE CHE SI SALVA GRAZIE AL NOME DEL SUO REGISTA

GENERE: n.c.

DATA DI USCITA: n.d.

DURATA: 70’

VOTO: 3 su 5

Dall’alto dei suoi 84 anni il cineasta maestro della nouvelle vague si permette di prendere in giro lo spettatore con il suo ultimo lavoro Adieu au langage e lo fa attraverso una serie di citazioni che da bravo narcisista sottolineano la sua superiorità culturale e intellettuale. E gioca, Godard, come un vecchio ragazzino con lo stile e il genere che lo ha reso famoso aggiungendo l’alta modernità del 3D a un’opera che è sospesa nel tempo, come lui, come ogni Maestro che si rispetti.

La storia è semplice: una coppia, un cane e la loro impossibilità di comunicare. La storia è semplice ma neanche fondamentale in Adieu au laguage che più che un racconto vuole essere una critica al non-linguaggio, come lo stesso titolo non tenta di nascondere.

Il 3D Godard lo usa a suo modo, lo usa a mo’ di metafora lanciandolo addosso allo spettatore per poi farlo divenire una visione monoculare che se si chiude un occhio si vede una donna, se si chiude un altro si vede un uomo.

Sperimentale Godard che mette in ballo pure un Hitler terrorista informativo e la paura degli uomini che sono senza anima, non come gli animali che l’anima ancora ce l’hanno, e uguali non davanti a Dio ma solo nel naturale atto di defecare.

Adieu au langage è un film particolare che ha tanti pregi tra i quali il più grande è proprio quello di essere un’opera di Jean Luc Godard perché se la stessa pellicola fosse stata diretta da qualcun altro non staremo qui a parlarne in questo modo. Se Adieu au langage non fosse nato dalla mente libera del Maestro probabilmente la riterremo un’opera coraggiosa e insensata e invece il peso del cineasta obbliga a gridare al capolavoro, anche se non lo è.

 

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