The Wolfpack: recensione film

IN SALA IL FILM VINCITORE DEL PREMIO TAODUE DELLA XII EDIZIONE DI ALICE NELLA CITTA’

the-wolfpack-poster01GENERE: documentario

DURATA: 90 minuti

USCITA IN SALA: 22 Ottobre 2015

VOTO: 4 su 5

Cosa fareste se vi tenessero rinchiusi in casa per quattordici anni, senza alcun ritrovato tecnologico moderno per poter contattare il mondo esterno? Senza internet, né un computer né tantomeno un cellulare, ma potendo contare esclusivamente sulla compagnia della vostra famiglia, come vi comportereste per riempire le vostre giornate? Quali sarebbero le vostre passioni, come formereste la vostra personalità? Domande esistenziali, che trovano risposta in The Wolfpack, il film che racconta la vera e scioccante storia della famiglia newyorchese Angulo, vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance nella categoria Documentari e trionfatore anche al Festival di Toronto. La pellicola diretta da Crystal Moselle ha inoltre aperto il concorso parallelo della Festa di Roma, Alice nella città, vincendone, giusto in giornata, il premio Taodue.

The Wolfpack riassume quindi, in forma di documentario, i quattordici anni di “segregazione” dei sette figli Angulo, sei maschi e una femmina, costretti a rimanere in casa dal proprio padre, ad eccezione di alcune brevi “gite” monitorate, comunque rare, per le terribili strade della Grande Mela. Seguace del culto Have Krishna, il capo della famiglia Angulo teme infatti la contaminazione della malvagia società contemporanea, desiderando di mantenere puri e innocenti i proprio figli, dall’abbigliamento e dalla pettinatura identica, assumendosi anche l’onere della loro istruzione con l’aiuto della madre, la quale si presta a fare da insegnante. L’unica opportunità di evasione per i sette fratelli diventa così l’ampia videoteca presente in casa, utile non solo ad una semplice fruizione spettatoriale ma soprattutto ad incoraggiare la loro creatività. I ragazzi, infatti, con un catalogo che va da Tarantino a Nolan, finiscono col trascrivere parola per parola i loro film preferiti, per poi metterli in scena.

L’origine della pellicola va trovata nell’incontro, per le vie di Manhattan, dell’allora studente alla School of Visual Arts di New York Crystal Moselle con un gruppo di sei fratelli, di età compresa tra gli undici e i diciotto anni, che catturano la sua attenzione per il loro essere tutti vestiti uguali, con un look molto simile a quello dei protagonisti de Le Iene, per i lunghi capelli raccolti  e gli occhiali da sole targati Ray-Ban. Con la regista in erba gli Angulo fanno quindi presto amicizia, condividendo la passione per il cinema, e pian piano introducono la ragazza nel loro bizzarro stile di vita. Da lì nasce il progetto di raccontare la loro storia, supportato dal Tribeca Film Institute, che ha assistito la Moselle non solo finanziariamente ma anche dal punto di vista tecnico.

Piuttosto facile, all’apparenza, comprendere perché The Wolfpack sia riuscito a colpire tanto in positivo la critica, in patria quanto nel nostro paese: una storia forte e di immediata empatia, che invita sonoramente a vivere la vita e a non dare certe comodità per scontate (soprattutto nel momento della “scoperta” del mondo da parte dei fratelli e, poi, nella narrazione della loro decisiva “ribellione” al padre). Allo stesso tempo, ci si trova di fronte a grottesche estremizzazioni da un lato dei valori dell’unità familiare, dall’altro della deriva morale della società odierna, sotto un punto di vista provocatoriamente contraddittorio. La pellicola, infine, è un inno al cinema e al suo potere di evasione, probabilmente in una chiave mai così concreta e “reale”.

Eppure si può notare anche una precisa e per nulla banale sapienza registica, che si sviluppa brillantemente sulle “assenze”. In primis, degli stessi autori dietro la macchina da presa, che a prima vista si limitano a riportare testimonianze ed aneddoti così come sono, ma che invece giocano con il montaggio, provocando nello spettatore una certa difficoltà nel dargli una collocazione temporale, costringendolo a rivedere le proprie posizioni continuamente. In secondo luogo, le assenze riguardano gli stessi familiari protagonisti e in particolare il padre, sempre presente nei racconti dei figli, che la regista Moselle mostra però “fisicamente” solo in chiusura di pellicola, dando volto e parola ad una figura che fino a quel momento sembrava terribilmente e spaventosamente ultraterrena.

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